di Nathan Greppi

The best is yet to come, “il meglio deve ancora arrivare”: questa frase, che cita una canzone di Frank Sinatra, fu pronunciata da Barack Obama quando fu rieletto nel 2012. L’allora presidente americano voleva farsi portavoce di un ottimismo a oltranza per il futuro, che riguardava tra le altre cose l’impatto delle nuove tecnologie nella società. Nove anni dopo, appare evidente quanto la sua profezia si sia rivelata errata, anche nel settore tecnologico. Infatti, se indubbiamente le aziende della Silicon Valley hanno conosciuto una crescita esponenziale, diventando le prime aziende per fatturato a livello mondiale in pochi decenni, l’avvento di un certo tipo di innovazione getta diverse ombre sul futuro del mondo del lavoro.

Nello stesso anno in cui Donald Trump vinse le elezioni, uscì negli Stati Uniti un saggio che ebbe una certa eco: The Rise and Fall of the American Growth dell’economista Robert Gordon. La tesi di fondo era che, rispetto alla Seconda Rivoluzione Industriale, quella legata a internet e al digitale abbia visto una crescita del benessere economico di gran lunga inferiore, già a partire dagli anni ’70. Per fare un confronto, nel primo ventennio del ‘900 la produttività in America aumentava in media dello 0,44% all’anno, per poi crescere rapidamente, superata la crisi del ’29, a una media dell’1,89% all’anno fino al 1970. Dopo quella data, la produttività è calata a una media dello 0,57% annuo tra il 1970 e il 1994, per poi risalire allo 1,03% tra il 1994 e il 2004; anno dopo il quale la media scese allo 0,40% annuo (dati 2016).

Nonostante questi dati dimostrino come le nuove tecnologie non abbiano aumentato effettivamente la produzione (diversamente da quanto aveva fatto la precedente rivoluzione), gli investimenti nella robotica e nell’intelligenza artificiale non hanno fatto altro che aumentare, e questo sebbene siano in molti a sostenere che toglieranno parecchi posti di lavoro: in un’intervista del dicembre 2020 a “La Lettura” del “Corriere della Sera”, l’economista turco-americano Daron Acemoglu spiegava come i lavoratori meno preparati, quali i commessi e i centralinisti, spariranno senza alcuna possibilità di riuscire ad adattarsi al cambiamento. Parlando proprio a proposito di Obama, Acemoglu notava come non fece nulla per ridurre le diseguaglianze socioeconomiche nel Paese, lavorando a fianco dei Big Tech in maniera totalmente acritica.

Il problema è che non è facile predire con esattezza quanti lavori spariranno e quanti nasceranno in nuovi settori. Il 25 gennaio 2018 la rivista del MIT ha pubblicato una tabella con 18 previsioni fatte da vari istituti e centri di ricerca: si va dalla previsione più pessimista del futurologo Thomas Frey, secondo il quale sarebbero spariti 2 miliardi di posti di lavoro entro il 2030 senza che ne nascessero di nuovi, a quella più ottimista della Federazione Mondiale della Robotica, secondo cui proprio entro quest’anno sarebbero nati dagli 1,9 ai 3,5 milioni di posti in più.

Più di recente, il Covid ha accelerato notevolmente i processi di automazione: stando a un report del 2020 del World Economic Forum, il 43% delle imprese a livello mondiale intende ridurre il numero di dipendenti per sostituirli con macchine. E se da un lato è prevista la creazione di 97 milioni di nuovi posti di lavoro, dall’altro il 40% dei lavoratori dovrà seguire dei corsi di formazione per adattarsi. Corsi che non tutti si possono permettere.

Altro problema è che in molti sembrano preoccuparsi della questione solo quando ad essere colpiti sono membri di minoranze: in un recente articolo di “Politico” si metteva in risalto il fatto che negli USA i lavoratori di colore siano più vulnerabili dei bianchi, avendo un tasso d’istruzione mediamente più basso (aggiungendo però che, per via dei vari programmi a tutela delle minoranze, avrebbero più possibilità rispetto ai bianchi di essere assunti come cuochi, cassieri o in altri posti poco pagati).

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Sebbene quasi tutti prevedano che l’impatto maggiore lo subiranno i lavoratori nel settore manifatturiero, anche in ambiti legati alla cultura e all’informazione ci sono dei rischi: nel giugno 2020, Microsoft ha licenziato 50 giornalisti per affidare le loro mansioni a degli algoritmi. Anche in ambito artistico-culturale ci sono degli sviluppi inquietanti; tra la fine del 2019 e il 2020, un software di intelligenza artificiale ha realizzato un manga analizzando diverse opere di Osamu Tezuka, tra i maestri del genere.

Nonostante questi dati dimostrino quanto occorra stare attenti, ci sono anche fattori che aiutano a pensare positivo: una ricerca del luglio 2018 sul manifatturiero negli Stati Uniti ha rivelato che, in quel periodo, solo il 27% dei lavoratori nel settore pensava che si sarebbero persi posti di lavoro a causa dei robot, mentre il 45% ha detto che sarebbero rimasti uguali e il 28% che sarebbero aumentati. Inoltre, è probabile che l’Italia non sarà tra i Paesi più colpiti da un eventuale “ondata di robot”: nel 2016, l’analista Alec Ross spiegava nel suo saggio Il nostro futuro che il 70% della vendita e produzione di robot era concentrato in 5 Paesi: USA, Germania, Cina, Giappone e Corea del Sud.

Non sempre queste macchine hanno il successo previsto: nel gennaio 2019 un albergo giapponese, che dal 2015 aveva un personale di soli robot, ha dovuto “licenziarne” la metà per assumere al loro posti degli umani, che in certe mansioni erano ritenuti migliori delle macchine. I rischi restano comunque alti, soprattutto perché durante la pandemia sono aumentati, specie negli USA, gli hotel e i ristoranti che sostituivano il personale umano con i robot. A San Francisco, già nell’ottobre 2018 c’era stato uno sciopero del personale di un albergo, che protestava per impedire che i loro posti di lavoro venissero automatizzati.

La politica dovrebbe trovare il coraggio di imporre una qualche forma di protezionismo nei confronti di quei macchinari e algoritmi che rappresentano più una minaccia che un’opportunità per la società nel suo complesso: ciò è stato in parte fatto persino in un Paese all’avanguardia, Israele, dove nel dicembre 2017 l’antitrust ha reso illegali i bitcoin, in quanto la moneta digitale era ritenuta pericolosa per gli investitori.

Un caso in cui queste invenzioni potrebbero invece tornare utili sarebbe qualora potessero consentirci di fare a meno dell’immigrazione in certi settori: in Giappone, ad esempio, almeno dal 2017 utilizzano i robot per coltivare i campi. Ciò è dovuto da un lato all’invecchiamento della popolazione, e dall’altro a una delle più fiscali politiche di contrasto all’immigrazione tra i Paesi sviluppati.

In conclusione, i rischi che comportano le trasformazioni tecnologiche in atto non sono né da esagerare né da sottovalutare. All’ottimismo ingenuo di Obama andrebbe anteposto un altro detto anglosassone, ben più pragmatico: hope for the best, prepare for the worst (“spera per il meglio, preparati al peggio”).

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Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).