di Guglielmo Picchi
Armenia, Azerbaijan, Nagorno Karabakh e autoproclamata Repubblica di Artsakh tornano spesso agli onori delle cronache per un conflitto congelato e irrisolto, che si trascina dal 1994 e che il 27 settembre 2020 è riesploso con una offensiva azerbaijana lungo la linea di contatto del Nagorno-Karabakh. Il conflitto di sei settimane si è concluso con un armistizio tra le parti siglato grazie alle mediazione della Federazione Russa, che ha riconosciuto all’Azerbaijan – sostenuto in modo aperto, anche militarmente, dalla Turchia – le aree riconquistate intorno all’enclave e la città chiave di Shusha situata al suo interno. Per l’Armenia è stata una sostanziale sconfitta e la prima significativa perdita territoriale dalla guerra del 1994.
Nei giorni scorsi, però, a riportare l’attenzione del mondo sul Caucaso meridionale non è stato il conflitto, bensì un apparente e confuso tentativo di golpe da parte dei militari che ha messo in allerta le cancellerie di mezzo mondo.
L’antefatto è la grande delusione nell’opinione pubblica armena per la gestione e l’esito del conflitto armato. Il primo ministro Nikol Pashinyan è stato aspramente criticato sia dall’opposizione sia dai militari, aprendo inevitabilmente la resa dei conti interna al paese.
Le avventate dichiarazioni di Pashinyan, che aveva attribuito parte della colpa della sconfitta militare ai missili Iskander – di fabbricazione russa – imputati di aver mancato i loro obbiettivi militari durante il conflitto, sono state sarcasticamente criticate dal vice capo di stato maggiore delle forze armate armene Tiran Khacharyan, provocandone l’immediato licenziamento da parte del Governo.
La reazione dei militari non si è fatta attendere e, dopo poche ore, lo Stato Maggiore ha fatto uscire una nota, riportata da “Armenpress”, in cui si afferma che “il primo ministro e il governo non sono più in grado di prendere decisioni ragionevoli” e che “per un lungo periodo le forze armate armene hanno con pazienza tollerato gli attacchi da parte dell’attuale governo tesi a diffamarle, ma tutto ha un limite”; si legge inoltre che il Governo di Pashinyan “ha commesso seri errori in politica estera” che hanno seriamente compromesso la sicurezza e l’esistenza stessa dell’Armenia.
Accuse chiaramente irricevibili da parte del Governo, che ha prontamente licenziato il capo delle forze armate Onik Gasparyan. Inoltre, dalla sua pagina “Facebook” Pashinyan ha chiamato a raccolta i propri sostenitori in Piazza della Repubblica, nel centro della capitale Yerevan, affermando che le forze armate devono obbedire al popolo e alle autorità elette e che la loro dichiarazione rappresentasse un tentativo di colpo di Stato.
Da questo video nasce la notizia del tentato golpe che ha sconquassato le redazione dei media e le cancellerie di mezzo mondo.
Durante il raduno in Piazza della Repubblica, cui hanno partecipato alcune migliaia di sostenitori, il primo ministro ha ricordato che l’esercito non è una istituzione politica e che ogni tentativo di coinvolgerlo in un processo politico è inaccettabile. Ha lanciato però un ramoscello d’ulivo all’opposizione, dicendo che ogni cambio di potere può passare attraverso le elezioni.
In concomitanza, i partiti di opposizione hanno organizzato una contro-manifestazione in Piazza della Libertà per chiedere le dimissioni del premier. Vazgen Manukyan, uno dei leader dell’opposizione, ha esortato la folla a iniziare a bloccare il parlamento, dicendo che i legislatori dovrebbero votare per il licenziamento di Pashinyan.“Preparatevi, resteremo qui tutta la notte e bloccheremo la strada con le barricate”, ha detto all’agenzia “Armenpress”. Il piano dell’opposizione era di dirigersi in seguito al palazzo del parlamento e dare man forte ad alcuni gruppi parlamentari che stavano tentando di convocare una seduta di emergenza per approvare una richiesta di elezioni generali anticipate.
Nessuna delle due piazze è però riuscita a raccogliere un numero considerevole di persone e il tentativo dell’opposizione di circondare il parlamento si è concluso con meno di mille persone, una decina di tende, qualche stufa a legna, alcuni tavoli improvvisati con tè e biscotti per i manifestanti. Non si è trattato di certo di una manifestazione tanto pericolosa da impressionare il governo in carica e indurlo a fare alcuna concessione. La polizia si è limitata a circondare l’area, bloccando il traffico, ma senza mai intervenire.
Il presidente della repubblica Sargsyan – che ricopre un ruolo in gran parte cerimoniale nel Paese ma a cui spetta di ratificare le decisioni del primo ministro sulla rimozione dei vertici delle forze armate – non ha per ora preso posizione ma si è limitato ad esortare tutte le parti a “mostrare moderazione e buon senso”.
Le reazioni da USA, Russia, UE, Turchia sono tutte improntate alla cautela e all’invito ai militari di rispettare il processo democratico in Armenia. L’Italia si è limitata ad accodarsi alle considerazioni dell’alto rappresentate per la politica estera della UE Josep Borrell, quando invece avremmo potuto esercitare un ruolo attivo sia nel cessate il fuoco sia nel trovare uno sbocco diplomatico al conflitto, considerando le eccellenti relazione che l’Italia ha con Armenia e Azerbaijan.
Vedremo quali saranno gli sviluppi politici di questo golpe dei comunicati stampa e del tè e biscotti, ma è certo che la stabilità politica dell’Armenia ne esce gravemente scossa.
Direttore per le Relazioni internazionali del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Deputato nelle legislature XV, XVI, XVII, XVIII e Sottosegretario agli Affari Esteri durante il Governo Conte I. Laureato in Economia (Università di Firenze), Master in Business Administration (Università Bocconi), dirigente di azienda bancaria.
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