di Daniele Scalea

Il 3 marzo scorso l’Amministrazione Biden ha pubblicato la sua Interim National Security Strategic Guidance, il primo documento che spiega come il nuovo inquilino della Casa Bianca imposterà la strategia americana di sicurezza nazionale.

Ben noto è come Joe Biden si sia opposto al predecessore Donald Trump in maniera molto netta, proponendosi quale “restauratore” di un’America solo lambita da una crociana “invasione degli Hyksos”. La cesura con Trump è evidente fin nell’introduzione, che il nuovo Presidente impiega proprio per marcare le distanze. Laddove il predecessore repubblicano aveva condotto una politica estera realista e conservativa, Biden promette un approccio ideologico (la difesa mondiale dei valori “democratici” quale caposaldo per la sicurezza presente e futura dell’America) e interventista (al motto “America is back“, declinato come rivitalizzazione delle alleanze e del ruolo negli organismi internazionali). Non sfuggirà come ciò ponga Biden in continuità più con Bush Jr. che con Obama, malgrado il tentativo di riecheggiarne il “leading from behind” col “leading with diplomacy”.

Le punzecchiature al predecessore non mancano nemmeno nel documento vero e proprio, ad esempio dove si spiega che le minacce globali non conoscono “né confini né muri”. L’impronta ideologica della nuova strategia americana appare evidente. La prima sfida da affrontare non viene indicata nell’ascesa della Cina comunista o nella pandemia: l’Amministrazione Biden cita invece il presunto “assedio alle democrazie” posto da “populismo, minacce illiberali allo stato di diritto […] nazionalisti e tendenze nativiste”. Queste “forze anti-democratiche” si accompagnano a “potenze autoritarie e antagonistiche esterne” e fanno utilizzo di “misinformazione e disinformazione”. Un chiaro riferimento alle Destre populiste e sovraniste, qui indicate come minaccia alla democrazia e alla sicurezza americane, più il solito richiamo alla teoria della cospirazione russa. Si tratta di un passaggio inquietante, perché fa temere una politica estera americana strumentalizzata dal Partito Democratico per colpire gli avversari politici interni ed esterni. L’affermazione che Washington dovrà combatterli prima di tutto con l’esempio, “affrontando davvero il razzismo sistemico e tenendo fede alla promessa d’una nazione d’immigrati”, non fa che esasperare l’impressione di un’impostazione decisamente ideologica e partigiana.

Non mancano comunque i riferimenti più propriamente di politica internazionale. Nell’elencare gli Stati minacciosi per gli USA il documento mette in fila la Cina (“unico competitore potenzialmente in grado di combinare potenza economica, diplomatica, militare e tecnologica” per sfidare la supremazia americana), la Russia (“un ruolo di disturbo sul teatro globale”) e, in terza battuta, Iran e Corea del Nord (che “sfidano la stabilità regionale”).

L’Amministrazione Biden immagina d’affidarsi, per contrastare queste minacce, non solo ai vecchi assetti giuridici e istituzionali del multilateralismo, ma pure a nuove coalizioni di attori statali e non statuali che ne condividano la visione. Si tratta di mobilitare le democrazie mondiali per “combattere le minacce alle società libere”. Forte enfasi è posta sulla necessità di primeggiare nello sviluppo delle nuove tecnologie, in particolare quelle relative all’energia rinnovabile, alla biochimica e al 5G. Tra i punti interessanti da sottolineare c’è anche quello in cui si afferma che l’interesse economico americano vada ridefinito: non si può più misurarlo sulla ricchezza nazionale aggregata o i profitti delle multinazionali, ma va ricalibrato sul tenore di vita delle “working families”. Dunque accordi commerciali che permettano d’espandere la classe media americana e pure “la mobilitazione della manifattura e dell’innovazione statunitensi per assicurarci che il futuro sia fatto in America, e in tutta l’America”. Nonché l’equiparazione tra sicurezza economica e sicurezza nazionale, che spinge a rendere sicure le supply chain critiche, incluse quelle di prodotti medico-sanitari.

La difesa della sicurezza nazionale americana passa da tre direttrici: il rafforzamento interno (sociale, economico, politico e militare), la struttura multilaterale di governo del mondo, una “favorevole distribuzione della potenza” che impedisca agli avversari di minacciare gli USA, appropriarsi in solitaria di “beni comuni mondiali” o “dominare regioni chiave”. L’Amministrazione Biden si propone di rafforzare e modernizzare la NATO e le alleanze con Australia, Giappone e Corea, nonché di espandere o creare nuove partnership con Canada, Messico, India, Nuova Zelanda, Singapore, Vietnam e altri Stati ASEAN. In Medio Oriente si conferma “l’impegno inviolabile” (l’espressione esatta è “ironclad commitment”) con Israele e l’antagonismo con l’Iran, ma senza alcuna “carta bianca” agli alleati per condurre “politiche in contrasto con gli interessi e valori americani”, citando quale esempio l’intervento saudita in Yemen.

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Il documento dichiara che si privilegeranno gli strumenti diplomatici ed economici, lasciando quello militare come ultima risorsa. Gli eventuali ricorsi alla forza militare cercheranno sempre di coinvolgere gli alleati internazionali e locali; i conflitti non dovranno estendersi troppo nel tempo. L’Amministrazione Biden segnala anzi l’impegno a porre fine all’intervento in Afghanistan, sebbene in maniera “responsabile”: l’intento strategico è quello di ridurre allo stretto necessario la presenza militare in Medio Oriente per concentrarla in Europa e nella regione indo-pacifica. Come prevedibile si promette di investire affinché le forze armate statunitensi mantengano la supremazia rispetto a quelle dei rivali, ma non manca anche qui un tocco di “verde”: “Sarà data precedenze agli investimenti difensivi in resilienza climatica ed energia pulita”.

Tra gli altri aspetti in cui l’America di Biden promette un impegno internazionale ci sono il cambiamento climatico (nuovo faro delle politiche industriali e priorità per un’azione multilaterale), l’eguaglianza di genere e i diritti “LGBTQI+”, la non-proliferazione nucleare, la sicurezza sanitaria.

Tirando le fila: la strategia di sicurezza di Joe Biden abbandona la Realpolitik che aveva caratterizzato Trump e in buona misura anche Obama per tornare a un’impostazione ideologica come quella pre-crisi del 2008. Fa però i conti col mutato clima sociale e sembra diffidare dell’interventismo militare. La Cina è evidentemente identificata come la potenza più minacciosa per gli Usa: le sono dedicati diversi paragrafi, mentre la Russia gode di pochi accenni. Anche questa è sola una presa d’atto d’uno scenario radicalmente mutato rispetto a dieci o vent’anni fa, ma comunque positiva se consideriamo la caccia alle streghe del Russiagate in cui da anni si cimentano i democratici americani. Valutazione decisamente negativa va invece espressa per lo spazio che occupano, in un documento di strategia per la sicurezza nazionale, considerazioni partigiane sul populismo e il sovranismo, che fanno temere crociate ideologiche contro le Destre occidentali. Infine, molto interessante è come, almeno a parole, Biden voglia legare le scelte d’economia internazionale al benessere dei ceti medio-bassi nazionali: una lezione appresa da Trump e che andrebbe interiorizzata anche da questo lato dell’Atlantico.

Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.