di Guglielmo Picchi

Quando i dati economici di un Paese sono sfavorevoli quasi sempre lo è anche l’opinione popolare verso chi governa. La Turchia ed il suo presidente Erdoğan non sono certo una eccezione e la crisi pandemica non ha aiutato.

Erdoğan è giunto al diciottesimo anno al potere e dovrà affrontare le elezioni presidenziali nel 2023 con evidenti problemi interni caratterizzati da una crisi economica aggravata dalla pandemia (disoccupazione al 30%, inflazione al 15%, crollo della lira turca del -80% negli ultimi 10 anni contro il dollaro, tassi di interesse al 19% e possibili difficoltà a finanziarsi sul mercato dei capitali) e da un dissenso sociale e politico sempre crescente da parte di molti settori della società turca (uscita dalla Convenzione di Istanbul, scissioni dell’AKP, messa al bando del HDP). Senza dimenticare le complicate relazioni esterne sia con la UE (Grecia, migranti, ZEE, energia) sia con la NATO (acquisto dei sistemi missilistici russi AS400) e pure con la Russia (scontro indiretto in Siria e in Libia) e il mondo arabo (per via del sostegno all’Islam politico e alla Fratellanza Mussulmana).

20 Marzo: crolla la Lira turca

I mercati non se l’aspettavano proprio: il 20 marzo il presidente turco Erdoğan ha annunciato il siluramento di Naci Abgal, governatore della Banca Centrale della Turchia – il terzo licenziamento di un governatore in meno di due anni. La conseguenza è stata netta: un crollo di oltre il 15% della lira turca contro il dollaro.

Proprio Abgal, pochi giorni prima, aveva deciso di alzare i tassi di interesse al 19% nel tentativo di frenare l’inflazione e sostenere la lira. Il governatore era apprezzato da più parti perché aveva difeso l’autonomia della Banca centrale e poneva in essere una politica monetaria “tradizionale”: infatti, dal suo insediamento aveva decisamente puntato ad alzare i tassi di interesse, facendo aumentare il valore della lira turca (che nei mesi precedenti aveva subito grossi cali) e abbassare l’inflazione. Agbal aveva preso il posto di Murat Uysal a inizio novembre 2020, dopo settimane di svalutazione della lira. Uysal, a sua volta, era stato governatore per meno di un anno.

Il nuovo governatore Sahap Kavcioglu, ex membro del partito di Erdoğan AKP, non rassicura certo gli investitori, sia per i timori sulla reale autonomia e indipendenza della Banca centrale sotto la sua gestione sia per la dichiarata convinzione (condivisa peraltro con Erdoğan) che un aumento dei tassi di interesse porti indirettamente a un aumento dell’inflazione. A poco è servita per rassicurare i mercati la nota del ministro delle Finanze turco, Lutfi Elvan, secondo la quale “non ci sarà assolutamente alcun allontanamento dal meccanismo del libero mercato. Continueremo con determinazione a implementare il sistema di libero scambio”.

La situazione economica generale è drammatica – la disoccupazione reale è al 30% (quella ufficiale dichiarata è del 13%) – e lo scorso novembre ha portato alle dolorose dimissioni da ministro delle finanze del genero del presidente Berat Albayrak, fino a quel momento dominus dell’economia turca.

La pandemia di Covid-19 ha contribuito a rendere ancora più instabile un’economia che già presentava diverse fragilità, sebbene il PIL nel 2020 sia riuscito a crescere del 1,2%. Tra i settori produttivi che risultano più colpiti vi sono il manifatturiero (-18%) e i servizi (-25%), soprattutto commercio, trasporti, catering e settore alberghiero. Ancora maggiori le perdite del comparto turistico, uno dei fiori all’occhiello dell’economia turca, che si è ridotto del 65%, con una perdita di 22 miliardi di dollari di entrate rispetto al 2019.

L’economia turca è molto cresciuta da quando Erdoğan è al potere, ma è stata per lo più finanziata a debito. Questo rende fragile sia il sistema bancario sia la sostenibilità del debito sovrano in valuta straniera. La Turchia ha un problema gigantesco col debito in valuta straniera, pari a circa un quarto del PIL. Se in passato finanziarsi in dollari o euro era relativamente economico, la forte svalutazione della lira, le scarse riserve in valuta pregiata e lo stock di debito in valuta straniera pongono la Turchia di fronte a scenari finora inediti.

Abbandono della Convenzione di Istanbul: una crisi sociale?

Se silurare il governatore della Banca centrale è stata certamente una mossa inattesa e cartina di tornasole della crisi economica, l’uscita di Ankara dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa contro la violenza sulle donne era stata largamente anticipata dalle parole di molti esponenti della maggioranza di governo e dallo stesso Erdoğan. La Convenzione, entrata in vigore nel 2011, firmata da 45 Paesi e dalla Ue, ratificata per prima proprio dal parlamento turco, prevede strumenti legalmente vincolanti per combattere la violenza sulle donne, prevenire gli abusi domestici e perseguire i responsabili.

La Ministra della famiglia ha difeso la scelta di lasciare la Convenzione affermando: “Abbiamo le leggi nazionali, la Convenzione non ci serve”. Non la pensano allo stesso modo le poche associazioni femminili rimaste aperte e l’opposizione parlamentare. La reazione non si è fatta attendere, con manifestazioni a Istanbul e in molte città turche e persino sit-in di fronte alle rappresentanze diplomatiche turche in molti Paesi occidentali. Puntuali anche le critiche di UE, USA e organizzazioni internazionali, secondo cui la decisione “espone a nuovi rischi l’incolumità delle donne”, in un Paese con marcata struttura patriarcale della società e in cui il 38% delle donne sposate subisce violenza fisica o psicologica, e dove, secondo la denuncia di varie organizzazioni femminili, ci sono stati 300 casi di femminicidio (più 171 morti sospette).

Con questa mossa Erdoğan ha voluto rafforzare la sua presa sul campo conservatore e le frange più tradizionaliste e religiose che da tempo lamentano come la convenzione minerebbe la struttura della ‘famiglia tradizionale’ e il sistema di ‘valori condivisi’ della Turchia, sostenendo il divorzio e l’omosessualità.

Crollo nei sondaggi e messa fuori legge del HDP

Dopo 18 anni ininterrotti di gestione del potere, Erdoğan affronta una vera e propria crisi di consenso. A due anni esatti dalle elezioni presidenziali, previste per il 2023, Erdoğan con il solo AKP non riuscirebbe ad essere eletto al primo turno. Sebbene il consenso dell’AKP sia ancora molto solido nell’Anatolia centrale, è indubbio che la guerra tra correnti e le due scissioni subite con la fuoriuscita di importanti personalità ne limitino la capacità di imporre la propria agenda politica. Secondo i sondaggi, se anche il Presidente riuscisse a concordare una candidatura unica con gli alleati del Partito del Movimento Nazionalista (MHP) e con il piccolo partito anti-NATO, Vatan Partisi (Partito della Patria), rimarrebbe lo stesso sotto la soglia del 50%.

Sebbene non sia la prima volta che i sondaggi sono negativi per Erdoğan, la novità sta nella durata temporale e nell’entità della flessione registrata. D’altro canto l’opposizione pare ben organizzata e con potenziali sfidanti, temibili e competitivi, come il sindaco di Istanbul del partito CHP Ekrem İmamoğlu o la cosiddetta “Kamala turca” Canan Kaftantsioglou.

Visti i precedenti, come la ripetizione imposta alle fallimentari elezioni comunali ad Istanbul, è facile aspettarsi da Erdoğan ogni tipo di mossa per mantenere salda la guida del paese. Più parti hanno ipotizzato modifiche alla legge elettorale, magari ampliando e facilitando il voto della diaspora turca nel mondo, che già alcuni anni fa regalò ad Erdoğan il quorum e la vittoria al referendum costituzionale.

L’uscita dalla Convenzione di Istanbul conferma la volontà di Erdoğan di stringere alleanze con partiti ultranazionalisti e religiosi che, sebbene elettoralmente marginali, potrebbero essere decisivi per la sua rielezione e i cui esponenti, a seguito delle purghe dopo il tentato golpe del 2016, sono tornati ad occupare posizioni di rilievo in particolare nelle Forze armate e in altre importanti istituzioni del paese. Se Erdoğan, col suo alleato Bahçeli, guarda elettoralmente all’elettorato di estrema destra nazionalista e a quello dell’islamismo più radicale, la migliore opportunità per rimanere al potere passa per l’eliminazione dalla scena politica ed elettorale del più insidioso partito d’opposizione, l’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, filocurdo e di sinistra, terza maggiore forza politica del paese.

Pochi giorni fa pubblici ministeri turchi – non proprio politicamente disinteressati e indipendenti – hanno chiesto infatti alla Corte costituzionale di decidere se l’HDP sia o meno compatibile con il sistema “democratico” turco. Con la messa al bando dell’HDP sarebbe l’ottava volta che i curdi perdono la propria rappresentanza politica. Mossa forse inutile perché porterebbe alla nascita del nono partito filocurdo. Ma come se non bastasse la chiusura dell’HDP, i pubblici ministeri turchi hanno richiesto alla Corte che ad oltre 600 membri del partito siano sospesi i diritti politici per 5 anni per le loro affiliazioni al PKK e per il tentativo di minare l’unità statale della Turchia. Infine uno dei leader del HDP, Gergerlioğlu, è stato privato del proprio seggio parlamentare con un voto della maggioranza in parlamento, composta da AKP e MHP. L’UE in un comunicato ha lamentato che chiudere l’HDP significherebbe privare milioni di elettori turchi della propria rappresentanza, e sarebbe un pericoloso passo indietro nella garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini.

Le mosse di Erdoğan potrebbero rivelarsi controproducenti e produrre una reazione negativa nell’opinione pubblica e, di conseguenza, un peggioramento dell’immagine del presidente.

Rapporti con UE, USA e NATO

Se la situazione economica, politica e sociale all’interno è molto complicata, non lo sono da meno i rapporti con UE, USA E NATO.

Il recente Consiglio europeo di Bruxelles ha approvato un dossier sui rapporti tra Ue e Turchia molto pragmatico e improntato agli aspetti della cooperazione commerciale e in tema di immigrazione, ma estremamente carente sul lato dei diritti che, almeno a parole. rimarrebbe “una preoccupazione fondamentale” per i leader europei, i quali sottolineano come “la presa di mira dei partiti politici e dei media, e altre recenti decisioni, rappresentano importanti battute d’arresto per i diritti umani” e siano “contrari agli obblighi della Turchia di rispettare la democrazia”.

Il dossier della UE predisposto da Josep Borrell appare sorprendente per la sua cautela, se messo a confronto con la netta presa di posizione del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi che è tornato sull’argomento sia nella conferenza stampa post Consiglio europeo (dove ha ricordato come il presidente Usa Joe Biden abbia rimarcato che in Turchia ci siano alcuni valori, o meglio disvalori, che l’Occidente non condivide) sia nelle comunicazioni alle Camere (quando aveva ricordato sì la centralità della Turchia negli equilibri transatlantici ma anche l’esigenza di rispettare i diritti umani, e che l’abbandono della Convenzione di Istanbul rappresentasse un grave passo indietro, in un’area dove passi indietro non sono ammessi). Già qualche giorno prima del Consiglio Europeo il premier italiano aveva espresso direttamente al presidente Erdoğan, nel corso di un lungo colloquio telefonico, la propria preoccupazione per il ritiro della Turchia dalla Convenzione.

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La direzione della UE è quella dell’apertura, sia pur cauta: in effetti Erdoğan qualche passo verso l’UE lo ha compiuto, interrompendo le perforazioni nei fondali marini contesi del Mediterraneo orientale, riprendendo i colloqui bilaterali con la Grecia e riavviando i negoziati su Cipro sotto l’egida Onu. L’UE ha pertanto evitato di applicare le sanzioni economiche contro la Turchia deliberate al Consiglio di dicembre. Rimangono sul tavolo il rafforzamento dell’unione doganale e la sorte dei 3,6 milioni di profughi siriani che la Turchia continua ad ospitare, con la promessa UE di fare progressi su entrambi i dossier.

Pochi giorni prima del Consiglio europeo, il 23 e il 24 marzo, a Bruxelles si è svolta la ministeriale esteri della NATO cui ha partecipato il segretario di Stato Usa Antony Blinken. In quell’occasione Blinken ha incontrato il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu e l’omologo greco Nikos Dendias. Si è trattato del primo incontro faccia a faccia tra Blinken e i due alleati NATO. L’agenda dei due incontri ha toccato molti degli argomenti previsti per il Consiglio della UE e dunque: le dispute nel Mediterraneo orientale, dove Turchia e Grecia si sfidano sulla delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive; il sostegno USA ai combattenti curdi in Siria; l’acquisto da parte di Ankara del sistema antimissile russo S-400. Proprio l’acquisto del sistema S-400 ha fatto cadere la Turchia nella trappola del CAATSA, il Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act, ed è stata esclusa dal programma di produzione dei caccia F-35. Nonostante le evidenti divergenze Blinken ha ricordato come la Turchia sia un alleato prezioso e di lunga data e che l’Alleanza Atlantica stessa potrebbe uscirne rafforzata, e ci sia il mutuo interesse a mantenere la Turchia al centro dei legami transatlantici.

Anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg si è confermato sulla stessa linea e, prima della riunione dei ministri degli Esteri, ha affermato che la Nato lavora per stabilire un meccanismo di de-conflitto tra Turchia e Grecia per ridurre il rischio di tensioni e di incidenti nel Mediterraneo orientale. A suo avviso la presenza navale Nato nell’Egeo è stata efficace, grazie anche all’impegno dell’Unione europea, per la ripresa dei colloqui esplorativi tra Atene e Ankara che si erano interrotti nel 2016 e che mirano a creare le condizioni per risolvere le contese sullo sfruttamento della piattaforma continentale, sui confini delle rispettive Zone economiche esclusive (ZEE) e le controversie sullo spazio aereo e sulle isole del Mar Egeo.

Ankara per Washington è ancora troppo preziosa ed è il principale antagonista della Russia in vari teatri di conflitto come Siria, Libia e Mar Nero. L’atteggiamento USA è quindi molto pragmatico: chiarezza nei rapporti con la Turchia ma impossibilità di consegnarla nelle braccia russe, e quindi no come la UE a sanzioni economiche, che rimangono dietro l’angolo se la strategia cooperante dovesse fallire. Il dilemma USA, che poi è comune a NATO e UE, è come non perdere la Turchia senza dover pagare un prezzo troppo alto nelle repressioni politiche interne.

Per Blinken gli S-400 russi sono incompatibili col sistema di difesa Nato perché rappresentano una evidente minaccia all’interoperabilità dei sistemi d’arma e delle comunicazioni della NATO. Come tali non sono assolutamente da non attivare. La Turchia da parte sua ha confermato come gli S-400 siano ormai un fatto compiuto e irreversibile, e un eventuale meccanismo di monitoraggio per garantirne la non attivazione non sia accettabile, ma ha anche proposto una tabella di marcia per discutere dei disaccordi con USA e NATO e l’istituzione di un gruppo di lavoro bilaterale per risolverli.

Erdoğan negli stessi giorni ha rilanciato il guanto di sfida a USA e NATO con la minaccia di acquistare un secondo lotto di S-400 e anche i caccia russi Sukhoi Su-57 e Su-35. Tuttavia non può e non ha intenzione di lasciare la Nato, non solo per una questione di sicurezza, ma anche per bilanciare il rapporto con la Russia e con la Cina utilizzando l’appartenenza all’Alleanza come una leva per ottenere vantaggi da queste potenze nei vari contesti regionali.

Amore ed odio con la Russia di Putin

Se dunque gli USA vogliono usare in modo pragmatico la Turchia in funzione anti russa, Ankara e Mosca hanno un rapporto molto particolare. Sono contrapposte sul campo di battaglia in Siria, in Libia, nel Nagorno Karabakh, ma almeno fino a questo momento sono riuscite a farlo in modo “complementare” e comunque ampliando le proprie sfere di influenza.

Memorabile è stata la conferenza stampa nell’ottobre del 2020 sul canale televisivo TRT, dopo i colloqui con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in cui Erdoğan dichiarò che la Turchia considera illegale l’annessione della Crimea alla Russia e di essere anche pronto ad una azione militare congiunta con l’Ucraina pur di sostenere i “fratelli tartari” di Crimea. Poche settimane fa, invece, i due contendenti Putin e Erdoğan si sono “videoincontrati” durante la posa della prima pietra della terza unità della centrale nucleare di Akkuyu, una delle manifestazioni più significative dello strane relazioni tra Turchia e Russia.

Le evidenti contraddizioni del rapporto e soprattutto l’ondivaga ed opportunistica linea politica turca non hanno reso possibile l’elaborazione di strategie congiunte di ampio respiro e di lungo periodo, ma è anche vero che la conclusione dell’acquisto del sistema missilistico S-400 e la spartizione de facto di Libia, Siria e Karabakh sono ormai realtà incontrovertibili.

L’esclusione della Turchia dal programma F35 e la buona cooperazione in materia energetica ha portato la Russia ad offrire alla aviazione turca la possibilità di dotarsi di caccia da combattimento Su-35 e Su-57. Una provocazione, forse, che potrebbe portare evidenti benefici solo al Cremlino, e di questo il presidente turco è certamente consapevole.

Turchia e mondo arabo

Il peggior fallimento di Erdoğan rimane comunque il rapporto con il mondo arabo e con l’Egitto in particolare. La sua strategia di essere un devoto difensore dell’Islam, antisecolare, duro contro Israele e vicino alla Fratellanza Mussulmana avrebbe dovuto ergerlo ad uno dei leader del mondo islamico e del Medio Oriente.

Se in una prima fase, con la vittoria della Fratellanza Mussulmana e l’elezione a presidente egiziano di Mohammed Morsi, la strategia pareva essere vincente, ma con il colpo di stato militare del 2013 in Egitto ha iniziato a mostrare tutti i propri limiti. Erdoğan si scagliò violentemente contro i militari e contro il generale autore del coup. Purtroppo per il leader turco, nel frattempo quel generale Abdel Fattah al Sisi è diventato presidente dell’Egitto ed è ora necessario trattare con lui per normalizzare le relazioni.

L’appoggio disinvolto turco alla Fratellanza Mussulmana e ad altri gruppi islamici ambigui e pericolosi (compresi i discutibilissimi affari commerciali con milizie affiliate a Daesh) è riuscito a risvegliare un nazionalismo arabo (completamente sottovalutato dai turchi) che, sopito da molti anni, trova le sue radici nei tempi del crollo dell’Impero ottomano alla fine della Prima Guerra Mondiale. Proprio la preoccupazione per un disegno neo-ottomano – una contrapposizione tra turchi ed arabi – viene confermata dai continui riferimenti storici che il presidente turco fa, nei propri discorsi, all’Impero ottomano, e ha aumentato la distanza con il mondo arabo. Esso ha anche accolto con scetticismo e dubbio la riconversione della cattedrale Hagia Sophia in una moschea.

Le aggressive politiche turche nel Mediterraneo Orientale hanno portato alla esclusione della Turchia dall’East Med Gas Forum e ala formazione dell’attuale alleanza “energetica” che comprende Grecia, Egitto, Israele e Cipro, con il sostegno dell’UE e degli Stati Uniti.

Erdoğan è consapevole della necessità di ricostruire un dialogo con il mondo arabo, a maggior ragione dopo che anche il tradizionale alleato del Qatar ha ripreso le relazioni con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Tuttavia il recupero del rapporto con l’Egitto in primis e il mondo arabo in generale non sarà indolore né sul piano internazionale né sul piano politico domestico. Lo dimostrano le critiche apparse sul giornale dell’opposizione turca “Karar”, che nel titolo di prima pagina apparso recentemente (“Perché otto anni sono stati sprecati?”) fa chiaro riferimento al gelo nelle relazioni turco-egiziane e alla assenza di risultati prodotti da quella politica di aggressiva diplomazia regionale.

Conclusioni

Erdoğan è in evidente difficoltà interna ed esterna. Politiche economiche “erratiche” e politica estera ambigua, unite a repressione degli oppositori e ad una generale chiusura ed involuzione della società turca, non sono certo la premessa di elezioni facili per il presidente in carica. Tuttavia, la presa solida che Erdoğan ha in molte zone rurali e più distanti dalla costa e dalle città, oltre al fattore tempo – in termini politici manca molto al 2023 – e alle sue grandi doti politiche potrebbero portarlo alla riconferma.

Direttore per le Relazioni internazionali del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Deputato nelle legislature XV, XVI, XVII, XVIII e Sottosegretario agli Affari Esteri durante il Governo Conte I. Laureato in Economia (Università di Firenze), Master in Business Administration (Università Bocconi), dirigente di azienda bancaria.