È convinzione radicata di ogni democrazia che il potere sia nella piena disponibilità di chi vince le elezioni. Illusione figlia del tramonto degli arcana imperii sancito dalle rivoluzioni razionaliste. E così, ad ogni turno di voti, si aspetta col fiato sospeso l’ascesa di una forza che possa alterare sensibilmente la direzione di uno Stato, di una regione, di un Continente perfino. Ma le direzioni, gli allineamenti strutturali, non cambiano mai. Perché?

Il senso della forma statale è quello di assicurare massime possibilità di sopravvivenza alla collettività che le ha dato vita. Non benessere, non moralità, ma sopravvivenza. Esiste, al principio di ogni Stato, la necessità di strutturare meccanismi che ne assicurino il perdurare indipendentemente dalle forze politiche legittimate elettoralmente che andranno ad occupare le posizioni del potere pubblico. Apparati, anticorpi invisibili della collettività, burocrazie senza volto che vincolano i governi all’interno di interstizi di arbitrio non pericolosi. Come già sottolineato da Schmitt, il potere è nell’anticamera, per quanto la camera (del re, del governo e del sultano allo stesso modo) debba raccontarsi al mondo come organo pienamente sovrano.

Ogni Stato ha le sue anticamere. Inossidabili e stratificate quelle americane – il famoso Deep State – che lavorano, tramano e pianificano nell’ombra per assicurare il perpetuarsi dell’impero globale, mettendolo al riparo dal Donald Trump di turno. Farraginose, lente, funzionali al ruolo subalterno sancito dagli alleati a fine guerra, ma nondimeno esistenti quelle italiane. Agli apparati il timone, alla politica la narrativa. Questo è il patto non scritto su cui si regge il Leviatano.

La politica, tuttavia, preme naturalmente per ritagliarsi un margine di manovra superiore. Alle volte questa contrattazione finisce con scontri pirotecnici, come si è potuto vedere il 6 gennaio nell’assalto a Capitol Hill. Altre volte gli apparati stessi reputano inevitabile cooptare una delle parti in gioco, condividendo parte del potere di indirizzo, a cominciare da quelle aree sentite come poco strategiche per i destini del paese.

Tradizionalmente, nel Vecchio Continente, la parte cooptata è rappresentata dalle forze progressiste, che dal ’68 iniziarono gradualmente ad affacciarsi all’anticamera. Le ragioni sono complesse. In parte fu il merito della Sinistra di dotarsi di intellettuali in grado di manovrare nelle torbide acque delle burocrazie. In parte la necessità dell’apparato di poter contare su delle forze non ostili al diffondersi della globalizzazione e del libero mercato – nacque così la Sinistra di governo, che dalla sua posizione condannò alla subalternità culturale e alla squalifica morale le forze conservatrici.

È opinione di chi scrive che oggi esista la possibilità di modificare questa congiuntura storica. I motivi sono essenzialmente due. In primo luogo, è in atto, da parte di buona parte del sistema internazionale, un risveglio della politica in chiave anti-globale e anti-economicista. Volenti o nolenti, anche i pigri Stati europei sono stati costretti a pensarsi di nuovo in un mondo pieno di pericoli, spietato. Pandemie, alleati di sempre distanti, vaccini che non piovono dal cielo. Insomma, la Storia.

In secundis, nel panorama della Sinistra si fanno strada approcci costruttivisti che predicano ristrutturazioni radicali della collettività – suicidi geopolitici in definitiva – che gli apparati non possono che vedere come nocivi. L’antirazzismo statunitense fa scuola, con saggi dalla diffusione planetaria come White Fragility, vero e proprio manuale per destrutturare la società del paradigma bianco e costruirne una finalmente inclusiva. Prende forza il filone delle “reparations”, i danni che gli Stati occidentali sarebbero tenuti a pagare in nome dei crimini del passato alle minoranze di casa e agli Stati del terzo mondo – introdotte per la prima volta in Oklahoma la settimana scorsa. Discorso simile può essere fatto per le avanguardie degli studi di genere e dell’economia neomarxista.

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Che si concordi o meno con queste idee, indipendentemente dalle parti in causa bisogna riconoscere che il loro scopo è un radicale ripensamento del vivere sociale. E la rivoluzione, per gli apparati, è sempre un male. Secondo i canoni della politica di potenza, unica assicurazione sulla vita nel sistema internazionale, i costruttivismi sono malattie autoimmuni, che inficiano la disponibilità della materia prima necessaria: miti e uomini.

In questo la Sinistra di oggi, di ispirazione postmoderna, si distanzia da quella governista cooptata dagli apparati nel secolo scorso. In nome della narrativa umanitaria quella Sinistra avallò i piani egemonici degli apparati occidentali, dal Kosovo all’Iraq, a Cuba. Ma oggi molti degli studi della nuova Sinistra propongono sempre più spesso di rassegnarsi alla subalternità e alla colpa originale, lasciando il mondo agli ultimi e ai diseredati come contrappasso necessario.

Un indicatore interessante è quello che si è acceso all’Eliseo. L’esecutivo di Emanuel Macron, ritratto canonico dell’alto decisore francese, è per molti versi simbiotico allo Stato profondo del paese. Oltre a spingere per l’autonomia strategica, il presidente ha individuato nel separatismo islamico una delle criticità che la Republique dovrà affrontare nei prossimi anni. Ma non solo. Il termine che Macron, e con lui il ministro dell’educazione Vidal, utilizzano ormai esplicitamente è “islamo-gauchisme”, “islamo-progressismo”. Nel mirino ci sono le università, colpevoli di diffondere narrative tossiche (specie in materia di studi coloniali) che “rischiano di fare a pezzi la Francia”. Fantascienza fino a pochi anni fa, considerata la provenienza “progressista” dell’appellativo.

Resta, oggi come sempre, la necessità di presentarsi (e costruirsi) come interlocutori credibili al sistema Paese. Punti di partenza e non di arrivo, congiunture da forzare per chi intende partecipare alla definizione dell’identità della nazione – quella sì, di estrazione politica e non burocratica.

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Studia la comunicazione politica, la narrazione, la capacità di creare miti e simboli per comprendere fino a che punto questo velo sia in grado di mascherare la realtà dei fatti. Proviene dal mondo del giornalismo, incubatore assieme all'università dei grandi miti post-moderni.