di Nathan Greppi

Nonostante in ambito politico ultimamente se ne sia parlato solo in relazione al caso di Gamestop, i videogiochi sono da diversi anni uno dei più importanti medium come diffusione e fatturato: nel 2018, il 33% della popolazione mondiale faceva uso di videogiochi, circa 2,3 miliardi di persone. Il fatturato di questo mercato ammontava a 137,9 miliardi di dollari, superando il mondo del cinema (42 miliardi) e quello della musica (36 miliardi).

Guardando all’Italia, nel 2017 il 57% degli italiani dai 16 ai 64 anni giocava (circa 17 milioni di persone), generando un fatturato di un miliardo e 477 milioni di dollari. Uno dei problemi dell’Italia, tuttavia, sta nel fatto che ha una produzione nazionale di videogiochi di gran lunga inferiore al potenziale bacino: le aziende italiane nel settore videoludico hanno guadagnato solo 40 milioni nel 2016. Ciò è dovuto al fatto che gli italiani che riescono a sfondare in questo mondo devono andare all’estero per riuscirci, in quanto nel nostro Paese non tutti colgono il potenziale di questo mezzo. La prima volta che si è parlato seriamente di tale industria nel dibattito politico è stato quando, nell’ottobre 2015, la Commissione Cultura alla Camera dei Deputati organizzò un convegno sul tema, al quale partecipò anche l’AESVI, associazione che rappresenta i produttori di videogiochi in Italia.

Ci sono Paesi dove i videogiochi sono da tempo riconosciuti come uno strumento per fare propaganda politica: come spiega il saggio Insert Kopeyki del giornalista Stelio Fergola, già in Unione Sovietica i videogiochi avevano un’importante funzione sociale (Tetris, la terza serie videoludica con maggiori vendite della storia, è stato inventato in Russia nel 1984). Anche l’Iran ha colto il potenziale propagandistico di questi mezzi, tanto che nel 2015 pubblicò un gioco per cellulari, Missile Strike, che simulava un attacco missilistico contro Israele, a detta loro in risposta a un videogioco americano del 2011, Battlefield 3, in cui si poteva bombardare Teheran.

Rimanendo in ambito (neo)comunista, il politico francese Jean-Luc Melenchon ha più volte fatto ricorso a mezzi di comunicazione legati ai videogiochi per attirare gli elettori più giovani, oltre ad essere un assiduo frequentatore di fiere del settore. Forse anche per questo al primo turno delle presidenziali del 2017 fu il candidato più votato nella fascia d’età 18-24 anni, superando con il 30% sia Macron sia la Le Pen, che nella stessa fascia presero rispettivamente il 18% e il 21%. Proprio per questa sua vicinanza a tale mondo, nel 2014 prese posizione contro Assassin’s Creed: Unity, capitolo della celebre saga ambientato durante la Rivoluzione Francese. Siccome il gioco dipingeva in modo negativo la rivoluzione, ritratta come frutto del complotto di un’organizzazione segreta, il politico disse che era “propaganda contro il popolo”.

Non sono solo i videogiochi che, nella cultura nerd, si prestano a propaganda politica; anche i manga e gli anime svolgono un ruolo importante in tal senso. Basti pensare che nel 2018 il governo cinese sostenne la produzione di The Leader, una serie animata sulla vita di Karl Marx. Sempre in Cina la censura ha colpito duramente i fumetti e i cartoni giapponesi che vengono visti come non in linea con i dettami del regime: nel giugno 2015 il Ministero della Cultura cinese stilò una lista di 38 cartoni giapponesi di cui fu vietata la riproduzione online nel Paese, in quanto secondo il governo “incoraggiano la delinquenza giovanile, glorificano la violenza e contengono materiale sessuale”. Inoltre, lo stesso presidente Xi Jinping affermò che andavano promossi solo prodotti artistici “in linea con i valori fondamentali del socialismo”. A seguito della direttiva, 8 siti di streaming cinesi sono stati chiusi e altri 29 hanno ricevuto multe o avvisi.

Questa ostilità è dovuta anche al fatto che l’animazione giapponese ha da decenni un impatto sempre più forte nell’immaginario culturale mondiale, oltre a valere moltissimo: come spiegava a gennaio il “Financial Times”, l’industria degli anime valeva 24 miliardi di dollari nel 2019 e secondo alcuni esperti arriverà a valerne più di 33 nel 2026. Mentre in cima alla lista dei maggiori franchise al mondo compaiono i Pokémon, che sommando tutti i prodotti ad essi legati (videogiochi, cartoni, accessori, ecc.) valgono 92 miliardi di dollari.

Nonostante i politici, sia di destra sia di sinistra, in genere parlano dei fumetti solo con toni denigratori, in Italia il mercato del fumetto ha un valore importante: basti pensare che nel 2013 esso valeva 200 milioni di euro, facendo del nostro Paese il 4° al mondo per fatturato e il 2° in Europa (i primi 3 paesi al mondo erano Giappone, Stati Uniti e Francia). Mentre, solo nell’aprile 2014, celebri serie come “Tex” e “Dylan Dog” vendevano rispettivamente 190.000 e 112.000 copie.

Proprio in questo mondo sono avvenuti i casi più eclatanti di cancel culture e deviazioni politicamente corrette nel nostro paese: basti pensare a quando la copertina della “graphic novel” La scuola di pizze in faccia del professor Calcare, del fumettista Zerocalcare, venne cambiata in quanto l’immagine ricordava la bandiera a 12 raggi del Giappone imperiale, ritenuta offensiva per cinesi e coreani a causa dei soprusi subiti dall’esercito giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Lo stesso Zerocalcare, nel suo reportage a fumetti dal Kurdistan Kobane Calling, dopo aver parlato dell’incontro con un turcomanno cinico ed egoista sentì il bisogno di specificare che non intendeva dire che fossero tutti così. Altro caso incredibile è quello di una storia del celebre investigatore Dylan Dog dove, per volontà del curatore della serie Roberto Recchioni, il protagonista “sposa” il suo assistente Groucho, nonostante Dyland Dog fosse notoriamente un donnaiolo.

Un caso in cui invece è stata estromessa una figura importante per la vicinanza politica alla destra è avvenuto nel settembre 2020, quando l’imprenditore Mario Pardini è stato di fatto costretto a dimettersi da presidente di “Lucca Crea”, associazione che organizza la celebre fiera “Lucca Comics & Games”, dopo essere stato visto prima passeggiare con Matteo Salvini e Susanna Ceccardi, e poi partecipare ad una cena in loro sostegno organizzata dall’ex-senatore Marcello Pera. Nonostante ciò, i lucchesi di ogni fazione politica riconobbero che la sua gestione del festival era state lodevole: nel 2018 Lucca Comics & Games registrò 251.000 biglietti venduti, saliti nel 2019 a quota 270.000. Nei due anni come presidente, con il ricavato versò 1,3 milioni di euro a quello stesso comune la cui giunta PD lo fece dimettere.

In conclusione, politici che aspirano ad avere un’influenza sulla società che vada oltre il vincere o perdere le elezioni dovrebbero prestare attenzione a come non lasciare che siano i propri avversari a monopolizzare la cultura di massa; perché come dimostrano i guadagni dei videogiochi e degli anime, con la cultura non solo si mangia, ma si comanda.

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Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).

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