di Valentino Toni

Il Softpower (letteralmente “potere dolce” o “potere convincitivo”) è un termine coniato negli anni ’90 dal politologo statunitense Joseph S. Nye Jr., professore all’Università di Harvard, per descrivere l’abilità di un potere politico di persuadere, convincere e attrarre tramite i valori, le istituzioni e la cultura. Se prima era l’Europa ad influenzare i Paesi asiatici, possiamo dire che la situazione si è invertita: ora sono i paesi dell’Asia che stanno “conquistando” l’Europa. Tra di essi troviamo un Paese che un giornale italiano ha definito “il nuovo Giappone” per via della sua crescente influenza culturale in Europa. Stiamo parlando della Repubblica di Corea e di quella che viene chiamata l’Hallyu, all’estero più nota come “Korean Wave” o in italiano “Onda coreana”, termine che dagli anni ’90 viene utilizzato per indicare l’aumento della popolarità globale della cultura coreana.

Per arrivare a parlare della Korean Wave dobbiamo però capire come la Corea del Sud sia arrivata ad investire oltre 500 milioni di dollari ogni anno nella cultura e a creare, all’interno del Ministero dei Beni Culturali, un ufficio dedicato all’industria culturale.

I primi accenni al Softpower coreano li troviamo nell’autobiografia di Kim Gu, leader del movimento per l’indipendenza e rresidente provvisorio della Repubblica di Corea. Egli desiderava che la Corea divenisse una nazione tra le più importanti al mondo ma non mediante l’utilizzo della forza: lui stesso, come molti gli altri suoi connazionali, aveva sperimentato il dolore dell’occupazione nipponica. Finita la guerra civile e divisa la penisola in due Stati, la Corea del Sud iniziò il suo periodo di boom economico, caratterizzato però da instabilità politica fino al colpo di Stato del 16 maggio 1960 a opera del Generale Park Chung-hee, la cui dittatura durerà sino al 1979.

L’Hallyu di Kim Gu viene riscoperto proprio negli anni ’60 quando, per tutelare l’industria cinematografica del Paese, Park introduce le cosiddette “quote cinematografiche” che riducevano di gran lunga la presenza dei film stranieri in Corea del Sud. Tale sistema cadde a seguito delle pressioni delle case cinematografiche statunitensi sul Congresso, che comunicò al Presidente Chun Doo Wan che l’accordo commerciale tra Stati Uniti e Corea del Sud sarebbe saltato qual ora questo sistema fosse rimasto in vigore: nel 1986 si arrivò al ritiro delle “Quote cinematografiche”. Di conseguenza, dal 1986 al 1994 i colossi cinematografici statunitensi arrivano a controllare l’80% del settore cinematografico del Paese, lasciando alle industrie locali a malapena il 15,9%; molti studi coreani dovettero dichiarare bancarotta perché non potevano reggere gli enormi costi sostenuti dai competitori di Hollywood.

Nel frattempo in Corea del Sud si era tornati alla democrazia, i cittadini erano finalmente liberi di viaggiare all’estero e le prime elezioni libere dopo trent’anni consegnavano la presidenza a Kim Young-sam. È proprio con lui che cominciava la diffusione dell’Hallyu prima in Asia e poi in tutto il mondo. Secondo fonti giornalistiche mai del tutto confermate (ma nemmeno smentite) l’idea che il Paese dovesse investire maggiormente nella sua cultura venne al Presidente osservando i dati del Ministero dell’Economia, secondo cui il valore della vendita di un milione e mezzo di Hyundai era notevolmente inferiore rispetto a quelle della vendita dei biglietti di Jurassic Park nel 1993. La Hyundai è sempre stata vista come una delle aziende simbolo del Paese e non sorprenderebbe quindi che la decisione di investire di più nella cultura fosse arrivata per un moto di orgoglio nazionale. L’azione che gettò le basi per la diffusione della cultura coreana fu la creazione, all’interno del Ministero dei Beni Culturali, di un apposito ufficio per l’industria culturale per incoraggiare investitori nazionali ma soprattutto esteri.

Tuttavia, non fu solo una questione di orgoglio nazionale: dobbiamo citare altri due ulteriori eventi che spinsero il Paese ad accelerare sulla cultura. Innanzitutto la crisi finanziaria asiatica del 1997 che colpì soprattutto il settore manifatturiero facendo sì che molte aziende coreane si rivolgessero verso l’intrattenimento, reputato più economico; e poi la rimozione delle restrizioni sulle importazioni culturali provenienti dal Giappone, Paese da sempre storico rivale della penisola coreana. Seoul sapeva dell’impatto che i film giapponesi )ma anche gli anime, i manga e i j-pop) avevano avuto nel resto del mondo e, per non venire travolta sua volta, il Ministero dei Beni Culturali chiese e ottenne un ulteriore aumento di fondi che permise di aprire oltre 300 facoltà dell’industria culturale in Corea, così da resistere al Giappone e al suo Tsunami culturale.

La crisi finanziaria non fermò dunque la Corea del Sud, che quell’anno stesso vide il successo del primo film ad alto budget nelle sale cinematografiche, Swiri, che in Corea superò addirittura gli incassi del blockbuster di Hollywood Titanic. Lo stesso anno il neopresidente Kim Dae-jung, che si era proclamato “Presidente della cultura”, aveva destinato ulteriori 148 milioni di dollari statunitensi all’industria dell’intrattenimento, approvando nel contempo una legge che facilitava la coproduzione con Paesi esteri e la diffusione e la pubblicità attraverso la televisione e internet della cultura pop coreana e delle sue serie televisive (chiamate d’ora in avanti K-drama), apprezzate maggiormente rispetto alle serie giapponesi più costose in termini di produzione e diffusione.

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Nei primi anni Dieci del XXI secolo l’Hallyu si era ormai consolidato in Asia, rivaleggiando con la cultura giapponese; tuttavia, se facili furono la diffusione e la popolarità della Corea nel continente asiatico, una reazione poco entusiasta, dovuta soprattutto alle differenze culturali, si ebbe negli Stati Uniti dove, nonostante una vivace comunità coreana. l’Hallyu faceva fatica a decollare. Ma nel 2012 le cose cambiano anche negli Stati Uniti e in Europa con l’uscita su “YouTube” del video musicale del rapper coreano PSY Gangnam Style, il primo video a raggiungere il miliardo di visualizzazioni sulla piattaforma di proprietà di Google.

Tale successo spinse molti produttori radiofonici, prima scettici e riluttanti, a diffondere sempre di più il K-Pop contribuendo a farne crescere la fama, che raggiunse uno dei punti più alti quando, nel 2017, i BTS esordirono negli Stati Uniti provocando un aumento degli acquisti negli store di musica online di K-Pop (soprattutto dopo la prima canzone in inglese Dynamite). Ad oggi questo gruppo di 7 ragazzi, secondo un rapporto del 2019, ha un valore pari a circa lo 0,3% del Pil nazionale (tradotto in cifre parliamo di 4,65 miliardi di dollari). Secondo il capo della partnership musicale in Corea di YouTube Sun Lee il K-Pop non avrebbe mai raggiunto la fama mondiale senza quella piattaforma.

A livello cinematografico va ricordato che nel 2019 il film Parasite, che mostrava in maniera cruda le differenze tra classi sociali in Corea del Sud, vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes e 4 Oscar tra cui quello per miglior film (prima volta di un film non in lingua inglese). La premiazione agli Oscar a Seoul è stata seguita al pari di una finale dei Mondiali di calcio e il Presidente Moon Jae-in ha inaugurato la riunione col suo staff con un lungo applauso dedicato al successo del film. Moon Jae-in stesso ha ribadito l’impegno del governo nel sostenere l’Hallyu ed è grazie ai suoi sforzi e a quelli dei suoi predecessori che oggi ogni anno il governo stanzia 500 milioni di dollari solo per la cultura.

Ad oggi l’Hallyu, nonostante un lieve calo, continua a diffondersi con il massiccio investimento di colossi televisivi nei drama coreani, che vengono sottotitolati e diffusi nel resto del mondo. Uno dei primi è stato “Netflix”, che ha intuito il potenziale di questi drama e nel 2021, a cinque anni dal suo debutto in Corea del Sud, ha annunciato un piano di investimento di oltre 500 milioni di dollari a seguito di un aumento vertiginoso delle ricerche degli utenti occidentali dei K-Drama. Una scommessa azzardata ma che spinge “Netflix” ad osare sempre di più, anche a costo di sforare il budget previsto inizialmente, ma che di fronte agli ottimi riscontri mette mano al portafogli e concede i fondi necessari ad andare avanti. Ne è un esempio la serie horror Kingdom che racconta della diffusione di una misteriosa piaga diffusasi nella penisola coreana ai tempi della dinastia Joseon e di un gruppo di superstiti, di varia estrazione sociale, che dovrà combattere per cercare una cura resa più difficile dal fatto che le persone si trasformano in zombi. Ciascun episodio è costato a “Netflix” 1,68 milioni di dollari.

Il nostro Paese da tutto questo non è rimasto immune: anzi è stato uno dei primi in Europa a farsi travolgere dall’Hallyu e in pochi anni l’entusiasmo verso tutto quello che proviene dalla Corea è aumentato incredibilmente. Oltre alla musica e alle produzioni televisive su “Apple TV” e su “Netflix” dobbiamo citare anche l’aumento dell’interesse degli italiani verso l’apprendimento della lingua coreana. A fine 2019 l’Istituto culturale coreano in Italia ha visto un aumento delle richieste d’iscrizione per l’apprendimento dell’Hangul, l’idioma coreano considerato più semplice da imparare per chi per la prima volta si affaccia a questa lingua; un successo che nemmeno la pandemia mondiale ha fermato, visto l’aumento delle iscrizioni anche nel 2020.

Da questa vicenda l’Italia potrebbe apprendere qualcosa? Decisamente sì: dovrebbe tornare ad investire e ad incentivare la cultura e il turismo, da troppi anni trascurati e mal gestiti da governi poco interessati a sfruttare il nostro patrimonio artistico e culturale, governi nei quali il Ministero dei Beni Culturali ha ricoperto un ruolo quasi del tutto marginale – nonostante l’enorme potenziale che potrebbe avere la cultura nel rilanciare il Made in Italy. A inizio mese il Presidente Moon Jae-in, durante un discorso pubblico, ha dichiarato: “Finanzio la cultura di questa Nazione e la sua diffusione affinché ogni cittadino possa sentirsi parte di essa”. Parole che forse dovrebbero essere ascoltate pure da chi ci governa in Italia.

Studente di Scienze internazionali e diplomatiche al Polo Universitario di Gorizia dell'Università di Trieste.