di Nathan Greppi

Negli ultimi giorni i due maggiori settimanali della Sinistra italiana hanno fatto discutere per delle copertine fortemente ambigue, disegnate da due importanti fumettisti: “L’Espresso” ha destato scandalo con la copertina del fumettista trans Yole Signorelli (soprannominato “Fumettibrutti”), in cui ritrae un uomo incinto con la scritta “La diversità è ricchezza”. L’altro, più discusso tra gli addetti ai lavori, riguarda la copertina disegnata da Zerocalcare (nome d’arte di Michele Rech) per “Internazionale“, relativa a un editoriale a fumetti di 26 pagine intitolato La dittatura immaginaria, in cui parla della cancel culture e del politicamente corretto in parte negando e in parte sminuendone la portata (come hanno fatto di recente alcuni progressisti, che etichettano il tutto come un’invenzione della destra).

Per chi pensa ancora che i fumetti siano solo prodotti infantili, è bene precisare che non va sottovalutato il peso dell’autore romano nel dibattito pubblico: basti pensare che “L’Espresso”, nel novembre 2020, gli dedicava una copertina in cui veniva definito “L’ultimo intellettuale” (definizione che lo stesso Zerocalcare ha però rifiutato con imbarazzo). Pertanto, è necessario ribattere punto per punto alle sue tesi.

Prima parte: qui Zerocalcare afferma che la cancel culture in Italia non esiste e che sui media prevalgono i discorsi beceri e superficiali perché fanno più audience; sostiene inoltre che chi si definisce censurato o emarginato lo farebbe solo per avere maggiore visibilità e che in questa macrocategoria rientrerebbero solo razzisti e sessisti. Aggiunge inoltre che togliere spazio a determinate persone sarebbe lecito per darne a chi di solito non ha voce.

Il suo discorso è sbagliato per dei semplici motivi: è vero che in Italia un certo tipo di discorsi, anche volgari, sono ampiamente sdoganati in gran parte dei giornali e delle tv (in parte per la rivoluzione della comunicazione politica avvenuta negli anni ’90 con il crollo della Prima Repubblica), ma se si guarda a ciò che avviene in altri Paesi occidentali, e in particolare negli ambienti culturali americani, inglesi e francesi, la situazione è ben diversa: lì qualunque professore o artista provi a dire qualcosa che, pur non essendo offensivo verso le minoranze, viene interpretato come tale, rischia il posto di lavoro e in alcuni casi la carriera. Quindi la preoccupazione non è per com’è il politicamente corretto oggi in Italia, ma per ciò che diventerà in futuro se dovessimo imitare altri Paesi.

Il suo primo errore è quello di parlare per massimi sistemi, senza citare quasi mai nomi e fatti specifici; eppure, lui stesso in passato ha commesso una sorta di autocensura: come spiegavamo in un precedente articolo, la copertina della “graphic novel” La scuola di pizze in faccia del professor Calcare venne cambiata in quanto l’immagine ricordava la bandiera a 12 raggi del Giappone imperiale, ritenuta offensiva per cinesi e coreani a causa dei soprusi subiti dall’esercito giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. E lui, nel suo reportage a fumetti dal Kurdistan Kobane Calling, dopo aver parlato dell’incontro con un turcomanno cinico ed egoista sentì il bisogno di specificare che non intendeva dire che fossero tutti così.

Infine, è ironico che Zerocalcare rimproveri ad altri di fare le vittime per le loro idee quando lui stesso lo ha fatto in passato: nel luglio 2019 la rivista ebraica “HaTikwa” pubblicò un articolo in cui lo criticava per le sue posizioni antisraeliane; lui reagì su “Twitter” in toni rabbiosi accusandoli di avergli dato del nazista, quando basta leggere l’articolo per capire che veniva criticato non in quanto nazista o antisemita ma, al contrario, in quanto terzomondista di estrema sinistra.

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Seconda parte: qui l’autore dice cose condivisibili anche da chi non è di sinistra; ad esempio che chi appartiene a una certa categoria vista come discriminata non può sempre vivere nel vittimismo né pretendere di essere l’unico ad avere voce in capitolo su determinati argomenti. Questa è infatti una strategia sempre più diffusa nei discorsi sull’antirazzismo: in Francia, ad esempio, ci sono organizzazioni come l’Unef, principale sindacato studentesco francese, che organizzano “riunioni non miste” dove chi è bianco non ha diritto a partecipare a dibattiti sul razzismo. Un modo di fare che è stato sostenuto persino dal vicesindaco di Parigi Audrey Pulvar (nera di origini caraibiche), la quale ha detto testualmente che, difronte a certi dibattiti, i bianchi dovrebbero “chiudere la bocca e assistere in silenzio”. Esempi che Zerocalcare dovrebbe o potrebbe conoscere, essendo egli stesso di madre francese.

Non manca un riferimento indiretto al caso di Gipi (che abbiamo già trattato) e alle accuse di sessismo rivolte nel mondo dei fumetti. Anche qui Zerocalcare riconosce giustamente che se da un lato le donne vittime di abusi vanno aiutate e i colpevoli puniti, dall’altro le proposte politiche delle femministe non devono essere immuni alle critiche.

Terza parte: qui Zerocalcare, rivolgendosi ai giovani di sinistra del suo stesso ambiente, fa una distinzione tra chi vorrebbe cambiare la società e chi, secondo lui, vorrebbe solo mantenere lo status quo. E questo senza considerare il fatto che anche chi, a destra o a sinistra, si oppone a certi cambiamenti politicamente corretti nella società e nei costumi può avere le sue ragioni. Se, ad esempio, riconoscere uomini e donne solo sulla base dei sessi biologici e non di quelli con cui si identificano serve ad avere dei punti di riferimento in un mondo caotico, mantenere lo status quo non solo non è sbagliato, ma è anche giusto. Semplicemente, chi vuole definirsi “trans” o “non binario” deve cercare di non prenderla sul personale.

In conclusione, il fumetto di Zerocalcare alterna alcuni passaggi condivisibili con altri che sono frutto di una visione provinciale, che si sofferma solo sul caso italiano e non su ciò che accade all’estero. Ma è proprio guardando ciò che avviene fuori dai nostri confini che si possono prevedere le derive che certi fenomeni culturali possono avere a lungo termine. Perché se è vero che l’istigazione all’odio è un problema reale, è altrettanto vero che ciò non deve diventare una scusa per imporre dogmi ideologici.

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Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).