di Nathan Greppi
Vivendoci immersi ogni giorno, raramente ci rendiamo conto di quanto la storia e la cultura italiana godano di grande fama e rispetto nel mondo, tanto che molti stranieri vi si ispirano per realizzare opere artistiche dalle quali si può dedurre che amino l’Italia più degli italiani stessi.
Questo apparente paradosso si vede anche nel mondo dei videogiochi, dove le migliori opere legate alla storia italiana sono state prodotte da aziende straniere: i titoli di Assassin’s Creed con protagonista Ezio Auditore, nobile vissuto nella Firenze rinascimentale, sono stati concepiti prevalentemente nella sede di Montreal della multinazionale francese “Ubisoft” (che ha anche una sede a Milano); Imperivm, saga di giochi per PC sulle battaglie dell’Antica Roma, è stata sviluppata dalla bulgara “Haemimont Games” e pubblicata dalla spagnola “FX Interactive”. Ci sono anche casi in cui i nomi sono ispirati a quelli dei nostri classici: in Devil May Cry, serie di giochi d’azione sviluppati perlopiù dalla giapponese “Capcom”, il protagonista e il suo gemello rivale si chiamano rispettivamente Dante e Vergil, un chiaro riferimento all’autore della Divina Commedia e al suo compagno di viaggio.
Quello dei videogiochi è un settore economico sempre più importante, capace di offrire posti di lavoro e che ha aumentato ulteriormente il proprio fatturato quando le persone erano chiuse in casa per via della quarantena. Secondo un rapporto pubblicato a maggio dall’IIDEA, associazione che rappresenta l’industria italiana dei videogiochi, dal 2018 al 2021 i professionisti che in Italia lavorano nel settore sono passati da 1.100 a 1.600, e negli ultimi 2 anni il 35% delle aziende ha assunto nuovo personale. Assumono soprattutto giovani, tanto che attualmente il 79% del loro personale ha un’età inferiore ai 36 anni. Il fatturato del 2020 è stato di 2 miliardi e 179 milioni di euro, con una crescita del 21,9% rispetto al 2019. Tuttavia, a fronte di un fatturato tanto ampio, la produzione nazionale è ancora relativamente bassa; infatti, questo fatturato è da attribuire soprattutto a giochi prodotti da aziende straniere, mentre quelle italiane tutte insieme facevano 50-70 milioni.
Ciò che manca in Italia non sono i talenti, bensì un ecosistema in grado di svilupparli. Gli italiani che hanno lavorato all’estero nel mercato dei videogiochi in certi casi hanno riscosso un notevole successo: basti pensare a Christian Cantamessa, sceneggiatore e designer di Savona che oggi vive in California, che ha lavorato al titolo del 2004 Grand Theft Auto: San Andreas, il più venduto per “Playstation 2”, ed è stato designer e co-sceneggiatore del western del 2010 Red Dead Redemption. Caso analogo è quello di un altro ligure, il genovese Alessandro “Talexi” Taini, che ha potuto lavorare alla grafica di un titolo della già citata serie Devil May Cry (DMC: Devil May Cry, uscito nel 2013) ma per conto dell’azienda britannica “Ninja Theory”, nella quale ha potuto fare carriera fino a ricoprire il ruolo di art director dal 2007 al 2015. Mentre il milanese Massimo Guarini ha diretto lo sviluppo di giochi tratti ad esempio dal manga Naruto o dal cartone “Disney” Il Libro della Giungla.
Purtroppo, in genere la politica italiana nel migliore dei casi si è disinteressata al tema e nel peggiore ha adottato un atteggiamento ostile: basti pensare a quando, nel 2006, Clemente Mastella voleva creare un autorità per censurare i videogiochi violenti, dichiarando: “Sono indignato per il livello di efferatezza e abiezione a cui possono giungere i videogiochi che finiscono nelle mani di bambini e ragazzi”. Lo stesso anno l’allora Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni (del PD) attaccò il gioco americano Bully, dicendo che “insegna a diventare dei superbulli”. Un altro esponente del PD, il deputato Carmelo Miceli, nel 2020 attaccò duramente il gioco mobile Mafia City, ritenendolo “un subdolo strumento di propaganda mafiosa”.
Sebbene i videogiochi abbiano i loro difetti, come tutte le tecnologie, sarebbe bene che se ne capisca anche il potenziale, soprattutto perché possono dare uno sbocco ai tanti giovani che se non troveranno un’occasione nel loro Paese diventeranno dei cervelli in fuga.
Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate Mosaico, Cultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).
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