di Nathan Greppi
A differenza del Texas, dove ha fatto discutere la recente legge che vieta l’aborto nella maggior parte dei casi, in Italia esso sembra ricevere un’accettazione acritica, tanto che secondo un sondaggio di “Formiche” i sostenitori della legge 194 a favore dell’aborto sono passati dal 41% nel 1997 al 66% nel 2021. Eppure, ci sono aspetti di questo argomento che meriterebbero di essere maggiormente conosciuti e discussi, e a dimostrarlo è il film americano Unplanned, ambientato tra l’altro proprio in Texas. Dopo alcune anteprime nelle maggiori città italiane uscirà in tutte le sale il 28 e il 29 settembre.
Il film, diretto da Cary Solomon e Chuck Konzelman e distribuito in Italia da “Dominus Production“, è basato sull’autobiografia di Abby Johnson (interpretata da Ashley Bratcher), che nei primi anni 2000 iniziò a lavorare per l’associazione no profit abortista “Planned Parenthood”, assistendo come psicologa le giovani pazienti e diventando in breve tempo direttrice di una clinica. La sua convinzione di fare la cosa giusta crolla il giorno in cui le chiedono di assistere ad un aborto: ciò che vide la traumatizzò al punto da spingerla a dimettersi per poi diventare una delle più celebri attiviste pro-vita negli Stati Uniti.
Un aspetto molto importante del film sta nell’empatia: generalmente, nel dibattito pubblico, si tende a dipingere le sostenitrici dell’aborto come paladine dei diritti e gli oppositori come bigotti fanatici. Capita che questi ultimi facciano la stessa cosa, ma all’inverso. Qui invece, sebbene il film prenda una posizione chiara contro l’aborto, chi li pratica non viene mai dipinto come cattivo, perché molti di loro pensano di fare la cosa giusta; lo stesso non si può dire per la loro dirigente, la cinica Cheryl (interpretata da Robia LaMorte), una donna che sfrutta l’immagine di difensori dei diritti delle donne solo per ottenere soldi e potere. A maggior ragione, Abby ha compiuto un gesto molto coraggioso nel lasciare quel mondo e passare dall’altra parte, perché ha sacrificato sia la carriera sia le amicizie per difendere i più deboli, in questo caso i bambini.
Un altro aspetto che Unplanned tratta molto bene all’inizio è l’importanza, per chi si batte per certe cause, di prendere le distanze da estremisti facinorosi. Gli attivisti ai quali lei si unirà agivano in modo pacifico e tranquillo, mentre altri usavano toni più aggressivi. Questo è un problema molto sentito anche in Italia: da noi spesso a fare da portavoce per certe idee è gente che utilizza toni aggressivi e divisivi che si prestano più all’infotainment televisivo che ad un attivismo serio, quando invece servono figure in grado di esprimere empatia. Figure che convincano chi vuole abortire a cambiare idea, non facendoli sentire in colpa ma provando a capire come si sentono e cercando di venirgli incontro.
In passato ci sono già stati film, anche di successo, dove la protagonista si convince a non abortire per salvare il bambino: è successo in Juno, uno dei film più celebri sulle gravidanze tra le adolescenti, e nella commedia di Bollywood Cuori in onda. Tuttavia, in Unplanned si trovano scene molto più crude, dove l’uccisione di feti e bimbi ancora in via di sviluppo viene mostrata in tutta la sua brutalità. È un tipo di violenza diverso da quello che si trova di solito nei film d’azione e dell’orrore; quelli si possono razionalizzare, mentre questa è una violenza che sembra sfuggire ad ogni logica.
Per quanto riguarda la recitazione, Ashley Bratcher interpreta magistralmente diversi stati d’animo: la gioia di chi ha appena avuto una promozione, il dolore per aver perso il feto, la disperazione dopo aver assistito a qualcosa di orribile, e infine la determinazione di chi vuole fare ammenda. Lo stesso non si può dire per LaMorte, la cui interpretazione della profittatrice assetata di potere a volte sembra un po’ troppo caricaturale. L’unico difetto di un film per il resto molto convincente.
La storia di Abby offre numerosi spunti di riflessione sul tema della vita e del destino dei nascituri. In particolare, l’idea alla base del film è che a volte occorre sacrificare parte del proprio benessere socioeconomico per un bene più grande.
Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate Mosaico, Cultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).
Scrivi un commento