di Emanuele Mastrangelo

Le vicende dell’indecente critica alle bellissime terga della statua della Spigolatrice di Sapri non sono riuscite a far cadere due gocce d’inchiostro sul vero protagonista della storia attorno all’immaginaria ragazza creata da Mercantini: Carlo Pisacane. Incredibile ma vero, una banale ricerca su “Google notizie” con la chiave di ricerca “Pisacane” darà solo risultati relativi a un calciatore. Ma su quello che fu un vero e proprio Che Guevara italiano, solo palle di fieno che rotolano al vento.

E la cosa non stupisce, per due motivi. Il primo è che il Risorgimento è passato di moda. E se solo quarant’anni fa perfino nei film di Pierino si trovavano battute ridanciane sugli eroi che fecero l’Italia – segno che la loro era una presenza viva nell’anima del popolo italiano – oggi, fra revisionismi neoborbonici e ordini di scuderia a cancellare tutto ciò che sa di identità nazionale, se pigliate un ragazzetto del liceo a caso e gli chiedete a bruciapelo chi fossero Garibaldi e Mazzini non saprebbe che rispondervi.

Il secondo è nella biografia di quel Carlo Pisacane, la cui tragica ed eroica morte nelle campagne del Salernitano ha fornito al poeta Luigi Mercantini l’ispirazione per la celebre poesia La Spigolatrice di Sapri. Perché Carlo Pisacane è stato sempre un po’ l’invitato scomodo nella festa dei Padri della Patria, la pecora nera del gruppo, tenuto nel novero forse solo perché ha avuto il buon gusto di farsi ammazzare per l’Idea.

Nato da una famiglia napoletana d’origine nobile il 22 agosto 1818, fu avviato alla vita militare. Una carriera che sentì sempre più stretta fino a gettarla alle ortiche. E con i galloni da tenente, nelle ortiche finì anche la sua rispettabilità borghese (sì, lo sappiamo che era nobile, ma l’Ottocento è il secolo della morale borghese) perché Pisacane a 26 anni si innamorò della moglie di un cugino – Enrichetta Di Lorenzo – e con lei fuggì nel 1847, non
prima d’esser scampato ai sicari del marito becco e alquanto infuriato.

Amore e Patria

Pisacane ed Enrichetta non condividevano solo la passione carnale, ma anche quella ideale. Erano entrambi patrioti e anticonformisti, e per loro iniziò una vita di avventura, boheme e idealismo.

Arrestati dai francesi, finiranno entrambi in prigione dove Enrichetta pur di non abbandonare Carlo da solo perderà il bambino che portava in grembo. Liberati, finiscono uno nella Legione Straniera francese, a imparare dagli algerini l’arte della guerriglia, l’altra a sopravvivere fra i miserabili in stile Victor Hugo, per poi incontrarsi di nuovo, sempre innamoratissimi l’un dell’altra, sulle barricate di Parigi incendiata dal Quarantotto. Ma il Quarantotto era scoppiato anche in Italia (anzi, era iniziato da noi…) e Pisacane decide di tornare in patria. Lo troviamo a Milano come comandante di compagnia dei volontari lombardi, poi arruolato nell’esercito del Regno di Sardegna. Un’uniforme, una qualunque, pur di combattere contro l’Austria, nemica della libertà d’Italia. Ma la Prima guerra d’Indipendenza finisce male. Pisacane ed Enrichetta, allora, riparano a Roma, dove ribolle quella stupenda pagina che è la Repubblica Romana. Pisacane è fra gli strateghi della difesa militare della Città Eterna accanto a Garibaldi ed Enrichetta combatte – come tante altre gloriose volontarie, dimenticate dalle femministe invidiose dei culi sodi che loro non hanno – sotto le mura del Gianicolo, doppiamente impegnate: una mano sul fucile e l’altra alle bende nelle infermerie che traboccano di eroi feriti e moribondi.

A Roma Carlo Pisacane incontra Giuseppe Mazzini. Con lui il suo ardore rivoluzionario trova una prima disciplina e sistematizzazione. Ma per Pisacane il mazzinianesimo non è che un passo verso una nuova filosofia politica personale. In esilio a Londra dopo la fine della Repubblica Romana, Carlo Pisacane entra in contatto con le idee di Carlo Marx, Pierre-Joseph Proudhon, François Fourier, François-Noël Babeuf e Filippo Buonarroti, che vanno a sommarsi alle suggestioni che gli avevano lasciato gli incontri con Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo durante la rivoluzione italiana.

Inizia così a distaccarsi da Mazzini – con cui manterrà però sempre buoni rapporti – per sviluppare una propria idea politica vicina ai modelli di socialismo utopico e di anarchismo. Il suo motto diventerà «libertà e associazione», mentre rovesciava il modello mazziniano di una rivoluzione successiva all’educazione del popolo. Per Carlo Pisacane, l’educazione del popolo poteva verificarsi solo dopo che le masse fossero state liberate dalle catene dell’oppressione e dello sfruttamento. Prima la riforma agraria e la distribuzione delle terre, poi le letture mazziniane. E va da sé che Pisacane non vedeva il primo passo come qualcosa che si sarebbe potuto realizzare senza l’impiego della violenza.

Rivoluzione, dunque. E non per instaurare una dittatura del proletariato, e di sicuro non un regno unitario con Vittorio Emanuele come sovrano. L’idea di Pisacane è qualcosa di singolare, quasi un’utopia in stile “Conan” di Miyazaki, con piccole comunità socialiste che si autoregolano e vivono in pace l’une con le altre. Le nazioni potevano essere così libere dalla tirannia e i popoli liberi dallo sfruttamento. Un anarchismo socialista e patriottico, forse unico nel suo genere.

Pisacane ci credeva e pensava che nel Mezzogiorno il popolo fosse maturo per sollevarsi e dare inizio a una rivoluzione nel senso da lui auspicato. Vedeva le province napolitane come una polveriera a cui occorreva solo una miccia per esplodere, e quella miccia doveva essere lui.

Verso Sapri

Pisacane iniziò a pianificare l’impresa che l’avrebbe condotto alla morte. A Genova organizzò una rete di rivoluzionari fra i quali Nicola Fabrizi, Giuseppe Fanelli, Luigi Dragone e sua moglie Rosa, Nicola Mignogna, Giovanni Nicotera, Giovan Battista Falcone e Rosolino Pilo. A quest’ultimo fu assegnato l’incarico di procurare le armi necessarie a una spedizione insurrezionalista. Una missione fallita per sfortuna ben due volte. Ma alla seconda, Pisacane non cambiò piani. Cocciutamente volle proseguire.

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Il 25 giugno 1857 Pisacane, imbarcato sul piroscafo “Cagliari” della Società Rubattino (la stessa che fornirà le navi alla Spedizione dei Mille e il cui proprietario è oggi nel mirino della cancel culture perché “primo colonialista” della storia italiana …), verga con altri ventiquattro rivoluzionari un proclama che è un inno al “cercar la bella morte”:

Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente, che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti nella giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il Paese non risponderà al nostro appello, non senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange de’ martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini, che, come noi, s’immolano alla sua libertà, e allora solo potrà paragonarsi all’Italia, benché sino a oggi ancora schiava.

Il giorno successivo, dirottato il “Cagliari” con la complicità di due macchinisti inglesi, Pisacane sbarca a Ponza, libera oltre 300 prigionieri dal carcere borbonico e punta verso le coste salernitane. Molto hanno ricamato i denigratori dell’idealismo risorgimentale sulla composizione di questa falange di avventurieri: pochi erano infatti i detenuti per condanne politiche, molti quelli per reati comuni. Ma quanti saranno stati i Jean Valjean fra i galeotti nelle reali carceri di sua Maestà di Borbone? Quanti quelli finiti ai ferri per aver rubato per fame, per disperazione, per rabbia sociale? Sta di fatto che quasi tutti gli ex galeotti decidono di unirsi alla spedizione.

Il 28 giugno a sera il manipolo di trecento ribelli sbarca vicino Sapri, nel Salernitano. Il popolo di quelle terre accolse attonito la spedizione. Le iniziali, tiepide simpatie vennero subito dissolte dalla dura realtà della rivoluzione (l’anarchismo che fa i conti con la necessità di mantenere la disciplina fra le varie umanità finisce sempre con le ossa rotte…) e ben presto i Trecento di Pisacane finiscono circondati, attaccati da soldati, sbirri e popolani aizzati dalla propaganda governativa e clericale. Come Che Guevara nella sua spedizione in Bolivia, anche Pisacane, il 2 luglio, viene ucciso da quello stesso popolo che aveva invano cercato di far sollevare. La sua fine è incerta: suicida per non esser catturato, dicono alcuni, massacrato a roncolate e colpi di forcone dai contadini, assalito da donne inferocite che brandivano ogni tipo d’utensile trasformato in arma…

La dura realtà è che quel popolo, da cui Pisacane s’aspettava una rivoluzione prima che fosse edotto sul perché occorreva ribellarsi, restò invece fedele alla propaganda governativa. Che allora come oggi era abilissima a far passare patrioti e ribelli per “briganti” e “predoni”. Di sicuro non giovò alla causa di Pisacane anche il suo irriducibile ateismo e anticlericalismo, una vera e propria offesa per i sentimenti del popolo.

Eredità di un inattuale

Come tredici anni prima i Fratelli Bandiera, anche Pisacane fallì. L’impresa riuscì nel 1860 a Garibaldi, che era meno filosofo e più generale, seppe pianificare meglio logistica e strategia – a partire da dove sbarcare – e soprattutto si dotò intelligentemente di un miglior… ufficio stampa. Pisacane era partito con troppo in testa l’idea di fare il martire e il destino aveva accontentato il suo cupio dissolvi. Quello sarà il lascito più importante che il Risorgimento e poi l’Italia unita presero da lui.

Le sue idee, scomode per tutti, perfino per i suoi amici come Mazzini, rimasero invece nell’ombra: basti pensare a quanto poco o nulla si parli di esse nei racconti edificanti sul Risorgimento che fino a qualche lustro fa erano parte integrante dell’educazione scolastica dei bambini. Tuttavia mai nella nostra storia – a 160 anni dall’unità nazionale – avevamo dimenticato in maniera così vile e ingrata questo eroe. Tutti, dai repubblicani ai socialisti, dai comunisti ai fascisti, perfino monarchici e moderati, avevano, seppur con qualche imbarazzo e omissione, cercato di arruolare Pisacane fra i propri antesignani e precursori.

Il suo anarchismo patriottico fu lucido sull’analisi dell’oppressione ma irenistico sui fini che si prefiggeva e sui mezzi per raggiungerli. E non stupisce che nei giorni in cui più che in ogni altro momento della storia nazionale l’oppressione della libertà, del diritto e dell’interesse nazionale dominano incontrastate su un popolo inebetito e incattivito, Pisacane rappresenti quanto di più lontano possibile dalla nostra realtà quotidiana. Coraggio di andare incontro a morte certa per sfidare l’oppressione mentre oggi milioni di persone vivono nel terrore della remota probabilità di contrarre un microbo; coraggio di abbandonare una donna amata e una figlia appena nata per seguire un ideale da lasciare loro in eredità; coraggio di parlare di libertà e patria mentre oggi la parola d’ordine è sottomissione e globalismo.

Nel suo testamento politico, che abbiamo citato più sopra, malediva il popolo se non si fosse sollevato con lui. Figuriamoci cosa penserebbe oggi delle masse con un QR code stampato in fronte.

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Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è redattore capo di "CulturaIdentità" ed è stato redattore capo di "Storia in Rete" dal 2006. Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellacancel cultureche sta distruggendo la nostra storia e Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).