di Fabio Bozzo

La Cina è meno forte di quel che sembra

La Cina è in crisi. Per carità, tutto il mondo è in crisi, anche e non solo a causa della pandemia di covid-19 (esplosa a causa degli errori cinesi!). Ma quello che il Dragone giallo sta affrontando è uno scompenso sistemico di particolare gravità, che metterà a repentaglio il suo status di superpotenza in pectore o, per usare un linguaggio pugilistico, di “superpotenza sfidante” rispetto all’attuale “campione”, ossia l’Aquila americana.

I sintomi del malessere sinico cominciano ad apparire in modo evidente anche al di fuori della Grande Muraglia, per quanto la dittatura feudal-comunista di Pechino si sforzi di celare i suoi problemi interni con una censura sempre più brutale ed una diplomazia sempre più minacciosa. Lo stesso accentramento di potere nelle mani di un solo uomo, il “nuovo imperatore” Xi Jinping, è un segnale che qualcosa non va all’interno della Città Proibita. Basti pensare che sotto certi aspetti l’attuale Grande Timoniere ha raggiunto un’autorità personale mai raggiunta nemmeno da Mao.

Nel libro The Rise of China vs. the Logic of Strategy, il sempre efficace Edward Luttwak scrive:

I governanti cinesi devono liberarsi dall’illusione che il potenziale di scala planetaria, la rapida crescita economica ed una costruzione militare non meno rapida possano coesistere e persistere stabilmente in un unico mondo. […] È improbabile che la rapida crescita della prosperità promuova modestia o moderazione, eppure nessun altro comportamento è accettabile in un mondo di Stati indipendenti condannati a resistere ad un potenziamento così significativo della Cina.

In altre parole Luttwak sottolinea che la crescita della potenza del gigante cinese fa paura a quasi tutte le altre nazioni indipendenti. La prima reazione a questa paura è evidente da diversi anni: l’attuale potenza egemone, gli Stati Uniti, ha avuto gioco facile nel creare una vasta alleanza di contenimento che circonda il Dragone su quasi tutti i lati, dall’India fino al Giappone, mentre la Russia (che si sta ancora leccando le ferite inflittele dalla propria parentesi comunista) resta saggiamente in disparte, cercando di ritagliarsi il ruolo di ago della bilancia. Ma Washington, da settant’anni tedofora delle strategie globali dell’Occidente, ha operato con abilità anche su altri livelli che cercheremo di analizzare.

Dopo le “primavere arabe”, la Cina si è lanciata nella corsa agli armamenti

L’espansione economica cinese in Africa, perfetto esempio di soft power, è nota da anni. Meno conosciuti sono gli interessi che legavano la Città Proibita alla Libia di Gheddafi. Nel 2010 la Cina aveva importato 150.000 barili di greggio al giorno dal Paese nordafricano, il 10% dell’intera esportazione di Tripoli. In cambio ben 75 aziende cinesi (ovviamente sotto controllo statale) con 36.000 lavoratori operavano in Libia nei settori infrastrutturali ed edili. Con il crollo del regime di Gheddafi, abbattuto dagli anglo-francesi aventi la benedizione esterna statunitense, tutto questo investimento è andato in fumo. Pertanto le rivolte della cosiddetta “Primavera Araba” (che nel mondo arabo viene più onestamente chiamata “Risveglio Islamico”) sono state e rimangono un evento negativo per l’Europa, specie per l’Italia, in termini di stabilità regionale ed immigrazione incontrollata, ma vanno anch’esse parzialmente inserite nella Nuova Guerra Fredda. Guerra in cui, giova ripeterlo ogni tanto, l’Italia e l’Occidente sono al fianco degli Stati Uniti. Non è un caso che Pechino, insieme alla Russia, durante la crisi libica si sia diplomaticamente schierata con l’ex dittatore poi sconfitto ed ucciso.

Lo stesso copione diplomatico si è ripetuto in Siria, dove addirittura Mosca ha effettuato un decisivo intervento militare a favore del Governo in carica. Perché Putin ha potuto osare più di Xi Jinping? Per varie ragioni. Innanzitutto Mosca non rappresenta una minaccia esistenziale per l’Occidente. Per quanto militarmente forte e territorialmente immensa la Russia non dispone di un’economia minimamente paragonabile a quella americana o dell’Unione Europea. Inoltre, fattore fondamentale, è antropologicamente parte dell’Occidente.

Come se non bastasse in Siria i ribelli islamici hanno commesso tutti gli errori propagandistici possibili, mostrandosi con il loro vero volto di pazzi fondamentalisti tagliatori di teste. Di fronte all’ISIS tanto gli occidentali più ingenui quanto quelli più machiavellici hanno valutato che fosse meglio tenersi un Assad indebolito dalle distruzioni della pur vittoriosa guerra. Ben veniva quindi l’intervento russo, che ha tolto le castagne dal fuoco senza la necessità di un vasto coinvolgimento dei Paesi NATO. A sua volta Putin ha esibito i muscoli, ha dimostrato al mondo ed alla sua opinione pubblica che “la Russia c’è”, ha ottenuto un enorme prestigio nel Medio Oriente e sostanzialmente ha fatto un favore anche all’Occidente. In pratica tutti contenti. Un intervento cinese in Libia invece non sarebbe stato possibile, in quanto sarebbe andato a scontrarsi direttamente con le forze anglo-francesi aventi alle spalle l’America. Pertanto Pechino ha dovuto ingoiare il rospo di un grosso investimento andato in fumo.

Un’altra ragione determinante per il non intervento cinese è stata la sua inferiorità militare rispetto agli USA. Per quanto in possesso di un enorme apparato bellico, Pechino ad oggi ha scarse capacità di proiezione lontano dal suo territorio e tecnologicamente deve fare ancora molta strada per colmare il gap con l’Occidente. In particolare la flotta cinese non è all’altezza di quella americana: un handicap non da poco per un Paese di cui il 60% del commercio viaggia sul mare ed in cui l’80% della popolazione vive nelle regioni costiere.

Tuttavia una dittatura a metà tra il comunista ed il nazionalista, impegnatasi in una prova di forza contro l’attuale equilibrio globale, non può riconoscere l’eccesso delle sue ambizioni. Pertanto negli ultimi anni Pechino ha avviato un notevole piano di espansione delle spese militari. Facendo ciò è probabile che Washington abbia fatto cadere la leadership della Città Proibita nella stessa trappola strategica che tanto accelerò il collasso dell’Unione Sovietica: una corsa agli armamenti alla lunga insostenibile contro gli Stati Uniti ed i suoi alleati.

Un riarmo economicamente insostenibile?

Dal 2011 al 2020 il budget militare cinese è raddoppiato. Le ambizioni e le relative spese della Repubblica Popolare si sono rivelate colossali, in quanto ha dovuto ristrutturare l’aviazione, avviare la creazione di una flotta oceanica, sviluppare i programmi spaziali, modernizzare le unità di risposta rapida e le forze speciali. Il tutto, ovviamente, accompagnato dalla costruzione delle relative infrastrutture militari e logistiche (ricordiamo sempre la saggezza del generale Omar Bradley: “I dilettanti parlano di strategia, i professionisti di logistica”).

Sotto molti aspetti tecnologici nel 2010 l’Esercito Popolare di Liberazione era poco oltre agli anni ’70 del XX secolo. Questo ha costretto la Cina alla creazione di interi rami di produzione militare, operazione dai costi esorbitanti. Malgrado l’oggettivo ed assai preoccupante miglioramento delle sue forze armate, vi sono indizi che suggeriscono che Pechino sia caduta nella stessa trappola in cui affondò la dirigenza sovietica da Brežnev in poi.

È vero che l’attuale economia cinese è enormemente più forte di quanto non fosse quella sovietica, ma ciò malgrado le spese stanno cominciando a pesare non poco. Come lo sappiamo? Dal fatto che nel 2019, malgrado le enormi necessità dei programmi già avviati, si è verificato il primo declino nel tasso di crescita della spesa militare. Tale rapporto è diminuito anche nel 2020, pur essendo le forze armate dell’impero di mezzo ancora lontane dal completare i loro piani di modernizzazione.

Questo scompenso è da ascrivere alla crisi economica provocata dalla pandemia di covid-19? Forse, ma sta di fatto che l’enormità delle spese belliche si è sommata alla crisi economica mondiale, ai giganteschi investimenti di Pechino all’estero (che come il caso libico ha dimostrato possono andare in fumo) e ad un abnorme debito pubblico (su cui torneremo). Troppo, anche per le larghe spalle del Dragone giallo. Vi è pertanto la concreta possibilità che, nel tentativo di dimostrare al mondo la propria forza militare, il Partito Comunista Cinese si sia lanciato all’inseguimento strategico degli Stati Uniti, sottoponendo la struttura economico-finanziaria del Paese a sollecitazioni oltre i livelli di guardia.

Tutto questo mentre il programma di modernizzazione delle forze armate siniche è in enorme difficoltà nell’affrontare dei gap tecnologici che richiedono tempo e molto denaro. Infatti, malgrado l’acquisto dalla Russia di tecnologia militare di buon livello, la Cina non ha ancora raggiunto nemmeno l’agognata relativa parità con le forze statunitensi nell’Oceano Pacifico, alle quali per di più devono essere sommate le eccellenti forze armate di Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Vietnam, Australia, Nuova Zelanda e quelle, qualitativamente discrete e quantitativamente enormi, dell’India. Una coalizione troppo forte per chiunque, specie per un Paese che in trent’anni non ha ancora prodotto una portaerei che possa competere con quelle della US Navy.

Possiamo azzardare, pertanto, che le prime due contromosse statunitensi alla sfida cinese abbiano posto Pechino di fronte ad una scelta comunque in perdita: rinunciare all’inseguimento strategico, ossia ammettere la sconfitta ed affrontare il rischio che l’umiliazione travolga il sistema di Governo, o continuare la contesa con Washington ad un costo che presto potrebbe destabilizzare l’intero Paese. Ovviamente partendo dal presupposto che nella Città Proibita comandano persone intelligenti, per le quali perdere la Seconda Guerra Fredda è meno peggio che scatenare la Terza Guerra Mondiale.

Passiamo ora al terzo strike americano.

L’attacco all’industria microelettronica cinese

La rinnovata aggressività di Pechino contro Taiwan, ai limiti della ricerca dell’incidente militare vero e proprio, è l’ennesimo sintomo delle difficoltà del gigante asiatico.

La retorica di Pechino è la classica: recuperare la provincia ribelle, unificare il popolo cinese, sconfiggere definitivamente i lacchè fascisti dell’imperialismo occidentale e via dicendo. Gli osservatori più attenti hanno invece notato un’altra possibile motivazione a questa recrudescenza bellicista: la microelettronica in generale ed i microconduttori in particolare. In tale settore scientifico la multinazionale taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) è l’attuale indiscusso leader mondiale. Dal momento che una conquista di Taiwan da parte della Cina è attualmente un’impresa al di sopra delle possibilità dell’Esercito Popolare di Liberazione, Pechino è andata alla ricerca di diversi strumenti di ricatto aventi l’obbiettivo di indurre l’Occidente, Stati Uniti in primis, ad abbandonare l’alleanza con Taipei. Uno strumento perfetto sembrava la concentrazione nell’impero di mezzo della produzione e quindi nell’esportazione dell’alta tecnologia. Le cose per Pechino sembrava si stessero mettendo bene, al punto che circa dieci anni fa la Cina copriva il 30% del mercato mondiale di microelettronica.

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Allora perché la leadership della Città Proibita, invece di continuare tale percorso, è passata alle minacce belliche? Semplicemente perché il Dragone giallo sta perdendo la battaglia tecnologica contro i suoi nemici geopolitici. Vediamo come.

È vero che la Cina produce autonomamente i suoi microchip, ma è rimasta indietro nel settore dei macchinari necessari alla produzione degli stessi, ossia i sistemi fotolitografici. Il settore di tali sistemi è dominato da tre sole multinazionali: l’olandese “ASML Holding” (dove ASML sta per Advanced Semiconductor Materials Lithography), che occupa il 62% mercato mondiale, e le giapponesi “Canon” e “Nikon”, che controllano il restante 38%. Paesi Bassi e Giappone, due alleati di ferro degli USA. Inoltre, secondo un articolo dello “Economist”, “i tre principali produttori di chip al mondo – Intel, Samsung e TSMC – sono diventati dipendenti dai prodotti ASML tanto quanto il resto del settore tecnologico dipende dai loro prodotti”.

Nel 2018 l’ASML, a seguito di trattative con le autorità statunitensi, ha interrotto i suoi contratti con la Cina, negando a quest’ultima non solo l’acquisto delle più moderne attrezzature fotolitografiche, ma anche la manutenzione di quelle in suo possesso. In relazione alle aziende nipponiche la questione non si pone nemmeno: per il Sol Levante la Cina è una vera e propria minaccia all’esistenza stessa.

È sullo sfondo di questa “geopolitica tecnologica” che i toni di Pechino sono passati dalla classica retorica della dittatura comunista alle isteriche minacce belliche.

In effetti il colpo allo stomaco piazzato dagli USA è di quelli da togliere il fiato. La Cina da un giorno all’altro ha perso una delle sue migliori armi di ricatto verso i Paesi sviluppati ed un fondamentale asset per la produzione e lo sviluppo di moderni microchip. Nel 2014 la Cina ha esportato microelettronica per un valore di 660 miliardi di dollari, ben il 28,2% delle esportazioni totali del Paese. Oggi le vendite sono scese a 350 miliardi e continuano a calare persino sul mercato interno. Questo perché il settore dei microchip è caratterizzato da un velocissimo invecchiamento tecnologico. Ogni anno compaiono nuove versioni di tutte le principali strumentazioni, la cui produzione necessita a sua volta di aggiornamenti continui. La Cina ha perso questo treno, potendo produrre solo al livello del 2018, quindi perdendo in competitività rispetto ai produttori del mondo libero. Ciò a breve danneggerà le esportazioni di tutti i suoi prodotti tecnologici.

Come se non bastasse per il Dragone le cattive notizie non finiscono qui, poiché per colmare il suddetto divario si ritiene che occorrano circa trent’anni di investimenti giganteschi. Solo in questo modo ed in questi tempi Pechino potrà dotarsi di una propria industria fotolitografica, ma fin da ora gli Stati Uniti paiono decisi a colpire duro per rimandare sine die una possibile controffensiva tecnologica cinese.

La debacle delle sanzioni all’Australia

Fin dai tempi di Deng Xiaoping l’Australia è stata per la Cina un ottimo partner commerciale, con oggettivi reciproci guadagni. Questa striscia positiva si è bruscamente interrotta nel 2020, anno in cui il Premier australiano di centrodestra Scott Morrison ha pubblicamente affermato che il gigante asiatico è il responsabile della pandemia di covid-19. Di fronte a questa dichiarazione lapalissiana la reazione cinese è stata la classica: isterica, arrogante e velatamente minacciosa. Apparentemente niente di nuovo, dal momento che l’Occidente è storicamente vigliacco di fronte alle intimidazioni economiche. Tuttavia stavolta (finalmente!) qualcosa è andato storto. L’Australia non ha ritrattato (appare evidente che nel frattempo gli USA abbiano offerto sottobanco le opportune garanzie) e a Pechino qualcuno ha perso la testa, decidendo di punire la non abbastanza servile terra dei canguri con le sanzioni economiche. Forse la leadership cinese ha sottovalutato il popolo protagonista dell’epopea di Gallipoli, fatto sta che delle sanzioni potenzialmente devastanti sono state assorbite quasi senza danni dall’Australia, pur essendo la Cina il suo primo partner commerciale.

Come un vero pugile incassatore l’economia australiana non solo non ha subito perdite, ma ha addirittura contrattaccato ed aumentato i suoi profitti dal commercio estero di 3,27 miliardi di dollari. Come? Diversificando le direttrici dell’import-export. Per esempio le esportazioni di carbone in Cina sono diminuite di 33 milioni di tonnellate, ma quelle verso altri Paesi sono aumentate di 30,8 milioni, mentre i produttori di orzo hanno compensato con il mercato saudita e quelli di vino con i consumatori di Hong Kong.

Così, mentre Pechino ha scommesso su una dimostrazione di forza, l’Australia ha dato una vittoriosa lezione di mercantilismo e capitalismo classici, un terribile scorno non solo economico, ma anche ideologico, per tutti i profeti del comunismo del XXI secolo, Xi Jinping in testa. Una brutta sconfitta per la Cina, che ha anche perso il suo principale fornitore di carbone e minerale di ferro. Rivelatrici le parole del Ministro del Tesoro australiano Josh Friedenberg, che ha dichiarato: “Non sto sminuendo l’effetto delle azioni della Cina. In effetti hanno danneggiato alcune industrie e regioni, soprattutto qualche caso. Tuttavia l’impatto complessivo sulla nostra economia, secondo i dati, è stato relativamente modesto”.

Invece l’eccesso di bullismo con Canberra sta avendo per Pechino conseguenze più gravi. Innanzitutto in pochi mesi è stata formalizzata l’AUKUS, l’alleanza militare tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti avente come dichiarato obbiettivo il contenimento del Dragone giallo.

Crisi energetica in Cina

Di pari passo per la Cina è iniziata una preoccupante crisi energetica. In questo settore il gigante asiatico trae dal carbone circa il 70% del proprio consumo (tuttavia, malgrado il carbone sia uno dei combustibili più inquinanti in assoluto, dubitiamo che vedremo Greta Thunberg e adepti manifestare in Piazza Tienanmen). Con il blocco delle importazioni di carbone australiano, di per sé tollerabile, sono iniziati vari problemi di fornitura energetica, quando non veri e propri blackout. Questo perché l’industria carbonifera sinica, per quanto immensa, soffre di obsolescenza, corruzione e cattiva gestione. Nonostante una colossale produzione la Cina utilizza una pessima logistica per la distribuzione del carbone nelle varie aree del Paese. Le comunicazioni interne, stradali, fluviali e ferroviarie, sono costantemente intasate, con continui inevitabili ritardi di consegna. Più di 26mila miniere, su 28mila registrate, utilizzano tecnologie d’estrazione ferme alla fine del XIX secolo.

La gestione centralizzata del Partito Comunista subisce poi la tipica schizofrenia del dirigismo socialista, con Pechino che passa da un estremo all’altro, prima ordinando di ridurre la quota di carbone nel settore energetico, poi evocandone l’aumento estrattivo. Questa confusione va avanti almeno dalla crisi del 2015, quando alcune province hanno subito dei blackout poiché dei funzionari, senza motivazioni note, hanno interrotto il lavoro di alcune centrali elettriche a carbone.

Come se non bastasse, l’amministrazione cinese sembra incapace nella gestione delle emergenze alluvionali. Nell’ottobre del 2021 una pioggia prolungata nello Shanxi ha allagato più di sessanta miniere di carbone, bloccando completamente l’estrazione in quattro, per una produzione annua di 4,8 milioni di tonnellate. A causa dello stesso incidente è stata interrotta la costruzione di altre duecento miniere. Queste sono le informazioni ufficiali delle autorità provinciali: vista la natura del regime cinese i danni potrebbero essere ben più gravi.

Un’economia scricchiolante

Quanto abbiamo letto finora va a combinarsi con altri problemi strutturali del sistema economico cinese, in cui ogni settore in crisi è contemporaneamente causa ed effetto delle crisi dei settori adiacenti. A marzo 2021 il debito aggregato di famiglie, aziende e settore pubblico superava i 46mila miliardi di dollari, pari al 287% del PIL. La popolazione cinese è al primo posto nel mondo in termini di debiti bancari, circa 600 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà ed il tasso di natalità nel Paese è inferiore rispetto agli “anziani” Stati europei (il che per l’Occidente è una buona notizia).

In breve, nonostante i tentativi di Pechino di mantenere una sufficiente crescita del PIL (anche barando nei metodi di calcolo), la situazione economica del Paese è, se non prossima a, sulla buona strada per il collasso. Anche i problemi sociali stanno aumentando. I cinesi cominciano a mal sopportare la loro posizione di “operose formichine” del Partito Comunista ed il movimento “Worker Lives Matter!” sta guadagnando popolarità. Finora è solo una modesta espressione di malcontento, ma, come si suol dire, le tempeste si fanno annunciare da lieve brezza.

Conclusioni

Che conclusioni possiamo trarre dalla nostra analisi? Innanzitutto che la Cina è e resta un gigante geopolitico. Malgrado si trovi in una situazione economica e sociale quasi disperata questo resta un fatto. Le sue smargiassate in politica estera (Taiwan, Australia e molto altro) sono un sintomo, una febbre che denota una malattia che si chiama paura. Paura che pervade la leadership di Pechino, la quale sa benissimo che se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente rischierebbe una pallottola nella nuca o una rivoluzione.

La lezione di Deng Xiaoping – rafforzamento lento, cortese ed inesorabile – è stata dimenticata, in loco di un’aggressività imperiale, grezza e frettolosa. Ciò ha portato il mondo libero, vale a dire l’Occidente guidato dagli Stati Uniti, a serrare le fila e a prendere le dovute contromosse. In tali contromosse gli Stati Uniti hanno dimostrato una capacità di pianificazione strategica e diplomatica di livello superiore, risultato di un’esperienza finora vittoriosa nella gestione degli affari mondiali. Gestione cominciata nel 1917 e che, tra alti e bassi, ha sconfitto il delirio genocida nazista e la perversione deumanizzante comunista, espandendo come mai prima nella storia i valori positivi della Civiltà occidentale. God Bless America.

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Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).