di Giovanni Giacalone

 

Lo scorso 5 ottobre, sul canale “YouTube” di un giovane videoamatore cinese che si fa chiamare “Guanguan”, è stato pubblicato un filmato di una ventina di minuti che è diventato subito virale, venendo ripreso anche da diverse testate e siti tra cui “Radio Free Asia”.

Guanguan è infatti riuscito in un’impresa storica, rischiosissima ed estremamente difficile: entrare nella Provincia Occidentale Autonoma dello Xinjiang per documentare i campi di concentramento dove il regime comunista cinese rinchiude i musulmani uiguri ed altre minoranze etniche appartenenti alle genti turche.

Il reporter spiega nel filmato che l’idea di recarvisi è scaturita dalla consapevolezza che ai giornalisti stranieri è praticamente vietato l’accesso, se non con visita guidato-pilotata da parte delle autorità di Pechino. Guanguan si è così detto: “Se loro non possono, posso io!”.

Il video include scene girate a Kumul, Mori, Fukang, Urumqi, Korla e Yunqi. Guaguan afferma di aver fatto affidamento sulle mappe satellitari “Mapbox” del 2017 e sul motore di ricerca cinese “Baidu” per immagini satellitari a media risoluzione. Alcune delle strutture di detenzione e delle strade non sono però segnalate sulle mappe, ma Guanguan è comunque riuscito a trovarle e a documentarle.

Gli edifici sono contornati da mura, in alcuni casi doppie, con filo spinato e torri con guardie; peculiarità alquanto curiose visto che il regime cinese parla di “scuole di educazione e formazione”.

All’ingresso di uno dei “mostri”, a Urumqi, è appeso un cartello con il motto: “Riforma attraverso il lavoro, riforma culturale”. Secondo Guanguan, quella di Urunqi potrebbe essere la più grande concentrazione di campi di detenzione della regione. Nel distretto di Dabacheng, il reporter riesce invece a filmare, nascosto dietro un monte, un campo che sembra nuovo di zecca e ancora non in uso.

Ciò confermerebbe quanto già riportato nel luglio del 2019 dal sito “Washington Free Beacon”, sulla massiccia presenza di varie tipologie di campi di concentramento dove il regime cinese rinchiude le minoranze etniche di fede musulmana per sottoporle a “rieducazione” e “lavori forzati”.

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Le stime di Washington e di diverse organizzazioni per i diritti umani parlano di oltre un milione di persone arbitrariamente detenute nello Xinjiang per mano dei militari cinesi. Secondo Randall Schriver, assistente segretario alla Difesa per gli affari di sicurezza dell’Indo-Pacifico sotto l’Amministrazione Trump, il numero potrebbe però raggiungere i 3 milioni (su una popolazione di circa 10 milioni).

Tutto ciò avviene nel più totale silenzio dei Paesi musulmani che, evidentemente, non hanno interesse a pestare i piedi al regime cinese. Del resto è sufficiente ricordare come la polizia turca sparò liquido al peperoncino contro i manifestanti che protestavano fuori dell’ambasciata cinese nel 2015. O menzionare gli accordi commerciali e militari tra Pakistan e Cina.

Sembra quindi che per i leader dei Paesi musulmani esistano cause di serie A e cause di serie B.

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Laureato in Sociologia (Università di Bologna), Master in “Islamic Studies” (Trinity Saint David University of Wales), specializzazione in “Terrorism and Counter-Terrorism” (International Counter-Terrorism Institute di Herzliya, Israele). È analista senior per il britannico Islamic Theology of Counter Terrorism-ITCT, l’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies (Università Cattolica di Milano) e il Kedisa-Center for International Strategic Analysis. Docente in ambito sicurezza per security manager, forze dell’ordine e corsi post-laurea, è stato coordinatore per l’Italia del progetto europeo Globsec “From criminals to terrorists and back” ed è co-fondatore di Sec-Ter- Security and Terrorism Observation and Analysis Group.