di Daniele Scalea

Lo scricchiolare della narrazione del “Green Pass salvifico” può apparire una buona notizia per chi, come noi, lo avversa. Purtroppo buona notizia non è. Prima ragione: perché al momento non c’è alcun ripensamento sul Green Pass, anzi varato in versione “Super” e, prevedibilmente, esteso domani sia nell’azione (ad esempio imponendo la versione “Super” per lavorare) sia nell’utenza (applicandolo anche ai bambini man mano che il vaccino diviene disponibile). Seconda ragione: perché laddove scema la fede nello strumento “chirurgico” del vaccino i governanti, i media e la maggioranza dell’opinione pubblica tornano a pensare al “randello” del lockdown. Viviamo in un’epoca in cui s’oscilla tra Green Pass e lockdown. Un pendolo degno di far rimpiangere quello tra noia e dolore di Schopenhauer.

No al Green Pass, super-no al Super Green Pass

Ricordiamo rapidamente perché siamo ostili al Green Pass e, ovviamente, al “Super Green Pass”. Trattandosi quest’ultimo di un aggravio del primo, valgono le medesime argomentazioni. Esse sono essenzialmente due:

  • l’ingerenza dello Stato nelle nostre forme di vita più essenziali. Il Governo pretende di essere sovrano sui corpi dei cittadini e, laddove questi ultimi resistano, li punisce conculcando loro diritti fondamentali;
  • le possibili, anzi probabili ulteriori degenerazioni del sistema. Il Governo ha introdotto un passaporto interno da cui dipende il godimento dei diritti essenziali dei cittadini. Tale passaporto viene concesso solo se il cittadino ottempera a comportamenti che, per giunta, nemmeno sono obblighi di legge. Lo strumento c’è: è solo questione di tempo perché anche in Italia si sviluppi un sistema di credito sociale come quello cinese, che condizionerà ogni nostro diritto alla completa obbedienza al Governo.

Essere contro la “certificazione verde” non significa essere contrari alle vaccinazioni. Tralasciando l’applicazione a fasce di popolazione giovanili, la vaccinazione delle classi più anziane sembrerebbe aver sortito effetti positivi, almeno a giudicare dai dati sulla mortalità ridotta.

No al lockdown

Anche sul tema del lockdown ci siamo espressi più volte nel corso degli ultimi due anni. Fin dagli albori dell’emergenza in Italia mettemmo in guardia dalla melliflua retorica del “solo due settimane per abbassare la curva”, anticipammo la realtà di una “nuova normalità” duratura e dei costi fisici-sociali-economici-psicologici ad essa connessi. Abbiamo poi denunciato le discriminazioni insite nel “distanziamento sociale” e il modo in cui i governanti e i media alimentavano un’irrazionale “caccia all’untore” per coprire le proprie responsabilità. Abbiamo sostenuto il primato della libertà quando il Governo aboliva ogni diritto e l’opposizione lo punzecchiava perché non ne aboliva ancora di più. Ci siamo battuti per le riaperture attaccando le motivazioni dei “chiusuristi”. Abbiamo chiesto a Draghi e alla sua maggioranza una netta discontinuità sulle chiusure (e, oggi possiamo dirlo, siamo stati delusi).

La terza opzione: libertà

C’è, ovviamente, un’alternativa all’angosciante pendolo tra Green Pass e lockdown. C’è e si chiama “libertà”.

Non siamo di fronte a una peste trecentesca, né a uno di quei film da horror catastrofico in cui i nove decimi della popolazione umana viene uccisa e tramutata in zombi. Stiamo affrontando la covid-19, una polmonite indubbiamente grave ma che non provoca stermini di massa, né uccide i neonati nella culla o i giovani nel fiore degli anni. In due anni questa malattia ha ucciso lo 0,2% della popolazione italiana, (in un anno, di norma, muore poco più dell’1% della popolazione), mediamente persone di 80 anni di età e con altre patologie. Sotto ai 50 anni ha ucciso 1601 persone, su un bacino di circa 32 milioni di persone. Sotto i 40 anni ne ha uccise 399, su un bacino di oltre 23 milioni di individui. Le vittime con meno di 60 anni avevano in oltre il 90% dei casi almeno un’altra seria patologia; nel 40% dei casi tre patologie.

Perdite dolorose, indubbiamente. Nessuno di noi vorrebbe mai staccarsi da un suo caro, avesse anche cent’anni. Correrò il rischio di apparire brutale, perché in un’epoca in cui basta molto meno per essere tacciati di “insensibilità” o “disumanità” non ha senso moderarsi. La morte di una persona giunta ormai all’inverno della sua vita è triste, ma non tragica nel sento proprio del termine, ossia “catastrofico”. Dopo gli 80 anni il decesso è, purtroppo, un evento frequente, a prescindere dala covid. Si può parlare di tragedia quando qualcuno ci lascia anzitempo. Purtroppo la covid provoca anche questo: per fortuna, lo fa molto raramente. Ma anche ciò, per quanto odioso e spiacevole, sta nell’ordine naturale delle cose: la morte prematura esiste da prima della covid ed esisterà anche dopo.

Possiamo e dobbiamo cercare d’evitarle, tutte le morti (premature e non), con cautele, ricerca medica e pure vaccini. Già lo stiamo facendo e la ridotta mortalità lo dimostra. Bisogna però uscire dalla folle rincorsa del “rischio zero”, dall’assoggettamento di tutta la nostra vita a un (impossibile) annullamento dei decessi. L’uomo non può tutto e, purtroppo, debellare la covid è tra le cose che ci sono precluse. Ormai è chiaro a tutti che ci si debba convivere, con questa malattia, tra l’altro confidando nei meccanismi evolutivi che fanno sì che un virus diventi sempre meno letale (la famigerata variante omicron già lo dimostra: più infettiva, meno dannosa). Cancellare la morte non si può. Smettere di vivere e vegetare in eterno, sperando così di scansare la morte, è da sciocchi: si perde la vita e si trova comunque la morte (e pure anzitempo, oserei prevedere: una vita chiusi in casa, senza socializzare, senza divertirsi, filtrando l’ossigeno da una mascherina, non appare lo stile di vita più sano possibile).

La morte è insita nella vita. Se si sceglie di vivere, si accetta anche che, in ogni cosa che facciamo, ci sia una piccola possibilità che ci conduce alla morte. Quando saliamo in automobile, sappiamo bene che potremmo fare un incidente, per colpa nostra o di qualche altro conducente, e morire. Rinunciamo perciò a guidare? Qualcuno forse sì e, se si sente così più felice, fa bene. Ma la stragrande maggioranza delle persone prende delle precauzioni – non si mette al volante da ubriaca, modera la velocità, allaccia la cintura di sicurezza ecc. – ma non rinuncia a guidare.

Come convertire alla libertà

Forse, lettore mio, condividi quello che ho scritto, se sei arrivato a leggere fino a qui. Ma scommetto che starai pensando: “Questo discorso è troppo brutale. Scandalizzerà, non convincerà le persone. E poi ci sono le questioni delle terapie intensive … gli ospedali intasati…”. Meglio ricorrere ai dati, ad argomentazioni logiche, mi dirai. Sai che c’è? Devi esserti perso gli ultimi due anni di dibattito intorno alla covid. Il fanatismo di chi stava in tv a chiedere più lockdown, poi c’è andato a chiedere più Green Pass e ora chiede anche più tamponi. Le violente aggressioni a chiunque provi ad accennare la più piccola obiezione. Rinomati medici o filosofi, prima tenuti in palmo di mano, improvvisamente derubricati a “rincoglioniti”. Lo stesso termine “filosofia” che, da un giorno all’altro, diviene dispregiativo, solo perché qualcuno dei suoi esponenti osa disturbare i “grandi timonieri” in camice bianco.

Citare dati e fatti non è mai male, per carità. Eppure, per quanto si possa parlare di Svezia o fare ragionamenti comparativi sui numeri di decessi di Paese in Paese, di anno in anno, lo sforzo sarà probabilmente vano. L’interlocutore troverà contro-esempi o, con argomenti capziosi o fallaci, cercherà di invalidare i nostri. Ci sono infatti due problemi legati all’efficacia d’un discorso ben argomento e ben documentato:

  • a meno che voi siate dei medici che discutono con altri medici, uno o entrambi gli interlocutori mancheranno di nozioni o metodo per sostenere un dialogo che verte sulla salute pubblica. Che significa non solo non saper argomentare a propria volta, ma pure essere incapaci d’apprezzare appieno le ragioni altrui;
  • come è stato ampiamente dimostrato, la maggior parte delle nostre convinzioni si basa non su giudizi ma su pre-giudizi. Non partiamo dai dati per formarci un’opinione, ma in genere abbiamo un’opinione “istintiva” che cerchiamo di puntellare con dati che la corroborino. Saremo perciò ingenui creduloni verso tutto ciò che conferma quel che pensiamo, ma diffidenti e scettici nel valutare quel che potrebbe confutarlo.

L’opinione delle persone si forma principalmente sulla base dei pregiudizi, i quali a loro volta sono generati dal sistema di valori e dalle convinzioni sedimentatesi in passato e fatti emergere dagli stimoli simbolici cui sono sottoposte. Paradossalmente, è più facile persuadere una persona modificandone la visione del mondo che cercando di farle cambiare giudizio su un singolo aspetto di esso. Non offrendogli dati o nozioni aggiuntivi, ma convincendolo a guardare ciò che già conosce da una prospettiva diversa.

Perché il covidismo è così popolare?

Cerchiamo di capire, innanzi tutto, da che prospettiva osserva oggi le cose.

Per cominciare, non dobbiamo sorprenderci se, oggi, persone cresciute nel vuoto valoriale e nel relativismo morale, indottrinate all’anti-eroismo, siano pronte ad accettare qualsiasi cosa pur di sentirsi sicure. Sicurezza, nei confronti di mali reali o percepiti, è l’unica richiesta che possano fare, assieme a quella di sentirsi migliori, rispetto a “cittadini di serie B”. Da qui la popolarità del “Green Pass”.

Una teoria (detta “from zero to hero“) elaborata per descrivere i meccanismi di radicalizzazione degli estremisti ci aiuta a capire perché molti oggi siano fan sfegatati di chiusure e restrizioni. Si è notato come il jihadismo sia un’idea che permette a molte persone ai margini della società – reietti, falliti, criminali, poveri ecc. – di trovare un senso “forte” alla propria esistenza. Li rende parte niente meno che di un disegno divino. Di colpo, delle nullità possono sentirsi eroi ed essere acclamate come tali da quanti sostengono le medesime idee. Qualcosa di analogo accade col lockdown. Certi atteggiamenti e comportamenti che fino al gennaio 2020 erano esecrati e dileggiati come “anti-sociali” sono divenuti meritori e “normali”: non uscire di casa, non frequentare amici, rifuggere da contatti fisici e interazioni sociali. Lo “sfigato” di gennaio 2020 due mesi dopo era diventato un “eroe”: e tutto senza doversi nemmeno sforzare. Una “guerra” – secondo la retorica dei media – che non si affronta uscendo fuori a combattere, rischiando la vita, ma al contrario “imboscandosi”, chiusi in casa ad aspettare che passi la tempesta. Che pacchia!

In sostanza, in questi due anni la narrativa dominante ha spiegato alle persone che bastavano loro poche semplici rinunce o sacrifici – chiudersi in casa, distanziarsi dagli altri, vaccinarsi, dotarsi di un passaporto interno e mostrarlo per esercitare i diritti fondamentali. Pochi “semplici” gesti per essere parte di un grande moto filantropico (“salvare tante vite”) e patriottico (come dimenticare i peana sciovinistici sul “modello Italia” durante il Conte bis? Roba che negli anni ’30 sarebbe talvolta apparsa eccessiva). Lockdown, chiusure, restrizioni, mascherine all’aperto, vaccinazione dei bambini, Green Pass, Super Green Pass: tutto fa parte di un culto in cui la lotta al virus è pretesto e non più fine. Talune di quelle misure possono essere realmente efficaci (altre sicuramente no: le mascherine all’aperto sono superstizione), ma ciò è secondario: conta il loro valore simbolico più di quello materiale. Non è un caso che a guidare la ritualità e la devozione dei seguaci del culto covidista siano i talk show televisivi: il regno dell’irreale e della finzione.

Sfuggire al pendolo si può

Questo discorso può apparire scoraggiante ai più. È più consolatorio credere che, forti dei dati sull’inefficacia del lockdown o delle dimostrazioni dell’incoerenza dei tele-virologi, riusciremo a convincere tutti che si stia percorrendo la strada sbagliata. Di fronte, invece, si troverà un muro di gomma che nessun dato o argomentazione oggettiva può perforare.

La strada è attaccare sul piano dei valori, dei simboli, dell’ideale. Proporre l’alternativa, impalpabile ma vera, della libertà individuale e della responsabilità del singolo come faro della vita collettiva. Dobbiamo credere che generazioni cresciute nel mito della libertà siano ora inevitabilmente portate a credere che uno Stato padre-padrone possa vietare loro ogni cosa in nome di un’emergenza? Certo, sul senso di responsabilità qualche problema in più ci sarà: quello non è solo da riscoprire ma da inculcare ex novo. Per non parlare del coraggio e dello stoicismo di correre dei rischi pur di mandare avanti la nazione e non pregiudicare il futuro dei posteri. E vero è pure che il pregresso “culto della libertà” è stato mollemente interpretato da tanti come mero libertinaggio ed egotismo. Eppure la base c’è, per spingere in molti a ribellarsi a quest’idea, che sembra ormai pacifica, per cui ogni nostra libertà sia condizionata all’assenso dei governanti che la dispensano a loro piacimento.

Possibile che il faro dell’ideale di libertà, che illumina l’Occidente da millenni, possa essersi spento così rapidamente? La fiamma è ancora accesa. Ridotta al lumicino, ma pronta ad ardere nuovamente. Ci sono ancora uomini tra le nostre nazioni. Persino in quest’Italia che attraversa uno dei suoi momenti più bui.

Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

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Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.