di Valerio Benedetti

Ho letto con molto interesse la recensione che Daniele Scalea ha voluto dedicare al mio libro, Sovranismo: la grande sfida del nostro tempo (Altaforte, 2021). Il presidente del Centro Studi Machiavelli ha perfettamente colto sia lo spirito animatore sia gli snodi centrali della mia opera. Per fortuna, Scalea non si è lasciato sedurre dalla tentazione di scrivere il classico articolo-marchetta, ma ha mosso al mio volume alcune critiche costruttive. Che, notoriamente, arricchiscono il dibattito e stimolano la riflessione. L’unanimismo, invece, non serve a nulla.

Le notazioni critiche di Scalea sono principalmente tre: 1) la mia interpretazione del globalismo come “glorificazione dell’esistente”; 2) il mio approccio al sovranismo ritenuto oltremodo “statalista”; 3) un eccessivo anti-americanismo che il recensore ha riscontrato nelle mie analisi geopolitiche. Sono critiche che meritano di essere discusse, ed è proprio quello che mi propongo di fare in questa breve replica, sfruttando la cortese ospitalità del Centro Studi Machiavelli.

Globalismo: nulla può esistere al di fuori di questa globalizzazione

La prima critica che mi muove Scalea, in realtà, nasce da un equivoco. Scrive Scalea:

Quando Benedetti indica il globalismo come “naturalizzazione dell’esistente” e, dunque, sua conservazione a tempo indeterminato manca probabilmente un punto. È certo che esso voglia fissare lo status quo gerarchico che vede l’oligarchia cosmopolita, di cui è espressione, al vertice. Benedetti trascura però la carica rivoluzionaria che ancora oggi il globalismo esprime: di una rivoluzione (dall’alto) che sta trasformando la nostra società a un ritmo inusitato. I globalisti non detengono il potere per il potere: non sono un’aristocrazia medievale che difende l’esistente; non sono una borghesia conservatrice paladine dello “ordine costituito”. I globalisti lo vogliono spazzare via, l’esistente; vogliono demolirlo alle fondamenta e ricostruire a tavolino secondo la loro visione utopistica. Apprezzare la dimensione rivoluzionaria del globalismo porterebbe l’Autore, forse, a rivalutare parzialmente le istanze conservatrici.

Quando parlo del globalismo come “naturalizzazione dell’esistente”, intendo principalmente dire che i globalisti mirano a soffocare ogni pensiero dissidente. Nella mia interpretazione, oggi l’«esistente» è il pensiero unico, è la fine della storia, l’idea secondo cui il divenire storico è stato ormai incanalato sui giusti binari, da cui non è possibile deragliare. Al di fuori della linea retta del progressismo (globalista), al di fuori di questa globalizzazione spacciata per “naturale”, nulla esiste. O meglio: nulla può esistere. Non a caso, nel mio libro insisto molto sull’essenza religiosa del globalismo: una religione secolare fatta di dogmi, rituali, liturgie, eretici e tribunali dell’inquisizione.

Il carattere rivoluzionario di questa ideologia non può essere messo in discussione: la decostruzione delle antiche tradizioni europee – che si manifesta plasticamente nella cultura della cancellazione, nella teoria gender, negli studi postcoloniali, nella mitologia del meticciato universale, nel “razzismo senza razza” e così via – è esattamente un grande progetto di ingegneria sociale che mira a creare una nuova umanità globalizzata. Informe e uniforme. Di conseguenza, non ho mai inteso disprezzare la ricca tradizione del pensiero conservatore, che ha avuto rappresentanti meritevoli del massimo rispetto, come ad esempio il compianto Roger Scruton. Tuttavia, ritengo il conservatorismo una risposta insufficiente, che ci costringe a giocare sempre sulla difensiva. Di fronte al vasto disegno globalista, che ha carattere epocale, non si può assumere un atteggiamento puramente reattivo: a un progetto di tali proporzioni bisogna opporre un progetto altrettanto vasto e grandioso, che sappia guardare avanti non meno che indietro. Io ho individuato questa risposta nel sovranismo.

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Rivendicare le prerogative del Politico contro lo strapotere dell’Economico

La seconda critica che Scalea mi muove è puntuale, e in effetti tocca un argomento che andrà approfondito nei prossimi mesi: il rapporto tra Stato e individuo. La mia concezione “statalista” del sovranismo nasce dall’esigenza di rivendicare con forza le prerogative sovrane del politico (il popolo e le sue avanguardie) di contro allo strapotere dell’economico (le oligarchie politiche, culturali e finanziarie). Tuttavia, la pandemia da Covid-19 sta riscrivendo con violenza finora inaudita i confini tra pubblico e privato. Confini che, si badi, non sono dati una volta per tutte, ma devono sempre essere rinegoziati. La natura dispotica – a tratti orwelliana – di numerose misure adottate dai governi Conte II e Draghi sono senz’altro inquietanti e, anzi, non possono che riattivare quel thymòs che è concetto centrale nel mio libro – cosa che Scalea ha peraltro lucidamente colto. Pertanto, qui la discussione non può che rimanere aperta.

L’autonomia dell’Italia come stella polare

E infine vengo alla terza e ultima critica formulata da Scalea. Secondo il recensore, nella mia opera è percettibile una “pregiudiziale linea di ostilità ontologica all’America come «nemico pubblico numero 1»”. Il discorso sarebbe molto lungo, ma ci tengo a precisare una mia ferma convinzione: in (geo)politica non esistono assi metafisici. Nelle relazioni internazionali, i rapporti amico/nemico non scaturiscono da princìpi iperuranici, ma vengono costantemente rimessi in discussione dalle contingenze di tempo e di luogo. La contingenza geostorica in cui ci troviamo a vivere come italiani del 2021 è questa: l’Italia ha perso l’ultima guerra mondiale e, in conseguenza della sconfitta, è diventata – come il resto dell’Europa – un satellite dell’impero americano (che poi altro non è che il cosiddetto “Occidente”). Questo vuol dire che la nostra è una nazione a sovranità limitata, e per ciò stesso a libertà limitata. La (ri)conquista dell’indipendenza non può che essere l’obiettivo di qualsiasi patriota, così come è sempre stato nella storia (inclusa quella delle tredici colonie americane). Ciò, ovviamente, non significa che non si debba interloquire con gli Stati Uniti (anzi, è di vitale importanza farlo), e in particolare con quelle correnti sovraniste della politica americana che sono maggiormente sensibili alle nostre istanze. Purtuttavia, la stella polare, verso cui orientare le nostre vele, non può che rimanere l’autonomia del nostro popolo, e cioè la sua libertà. Detto altrimenti: possiamo e dobbiamo parlare con tutti. L’importante è farlo sempre da italiani.

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Laureato in Lettere e dottore di ricerca in Storia, è caporedattore del "Primato Nazionale". Saggista, il suo ultimo libro è Sovranismo: la grande sfida del nostro tempo (2021).