di Marco Malaguti

“La scienza non è democratica”: così ha sentenziato, più volte, Roberto Burioni – medico, virologo e, ormai, personaggio televisivo entrato pienamente nel larario delle icone pop dell’Italia pandemica. Solitamente questa specificazione rappresenta una strategia retorica di basso livello per zittire gli avversari ma, per quanto possa rappresentare un trucco oratorio di bassa lega, essa contiene un nocciolo di verità.

Come più volte ricordato in queste pagine, la Scienza non è, e non dovrebbe rappresentare, un ideale regolatore ed amministratore della vita e dell’etica umana; la Scienza, per come si è sistematizzata nel corso del tempo, si inquadra come una prassi, escogitata arbitrariamente dall’uomo nel corso dei secoli (in particolare gli ultimi quattro) per sistematizzare la realtà in un insieme organico, coerente e spiegabile di fatti concatenati tra loro da rapporti di causa. Per ottenere questo quadro prospettico la democrazia e la sua pratica sono fondamentalmente inutili in quanto appartenenti ad una sfera, quella della politica, separata dalla Scienza stessa: applicare la democrazia alla Scienza non ha più senso dell’applicare un pianoforte nell’edificazione di un nuovo edificio.

Scienza e democrazia: una compresenza impossibile

Sia la Scienza sia la democrazia soggiacciono ad una condizione di strumentalità, ossia sono strumenti, di per sé neutrali, emersi per risolvere problemi manifestatisi nel corso della storia dell’essere umano. La risoluzione di problemi di ordine diverso (materiali nel caso della scienza, etici e politici nel caso della democrazia) ha col tempo codificato una differente architettura del pensiero. Sembra scontato ricordarlo ma scienziato e politico, specialmente se quest’ultimo è democratico, ragionano (o dovrebbero ragionare) in modo differente.

Sotto la cupa luce del moderno nichilismo, l’etica non dà mai risposte definitive e, in un mondo dove (per dirla con Nietzsche) “manca lo scopo”, l’unica soluzione democratica possibile, per armonizzare le differenze di punti di vista, è la pratica della discussione. Così non è invece per le scienze: il pluralismo, in ambito scientifico, vale esclusivamente per quanto riguarda il diritto a proporre una visione alternativa dei paradigmi vigenti, ma esso incappa immediatamente nella strettoia che impone al proponente di suffragare il nuovo paradigma sulla base di dati e osservazioni metodicamente raccolti e classificati.

La Scienza, come già detto, ha il fine di descrivere la realtà: essa deve (dovrebbe) rimanere aperta al contraddittorio, pur nella quasi ossimorica posizione di dover fornire al contempo soluzioni inappellabili. Per proporre un nuovo paradigma, diverso da quello vigente, lo scienziato non può discutere, ma deve necessariamente fare, deve cioè osservare e, usando una vivida espressione di Francis Bacon, vessare la materia per proporre nuovi dati incontrovertibili a suffragio della sua tesi.

Quando però i due ambiti, scienza e politica, finiscono per confondersi, le cose si complicano. L’ascesa del tecnocrate, che assurge a nuova figura chiave del XXI secolo esattamente come il burocrate lo fu per il XIX ed il XX, spalanca le porte a scenari che il Novecento aveva fatto solo presagire.

L’abdicazione della politica

L’incapacità della politica e degli strumenti classici della sovranità di far fronte alle sfide del nuovo millennio ha fatto sì che, alla ricerca di soluzioni rapide (spesso dettate da necessità emergenziali), la politica abbia fornito sempre più spazio alla figura del tecnocrate cominciando, come ovvia conseguenza, a pensare sempre più come lui. La crisi pandemica in atto sancisce il coronamento quasi simbolico dell’intero processo, con interi team di scienziati, in tutto il mondo occidentale, a svolgere sempre più funzioni ascrivibili all’ambito politico, similmente a quanto sognava Bacon nella sua Nuova Atlantide e, più tardi, il positivista Auguste Comte.

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Quali siano le implicazioni di questa svolta politica e culturale è facile immaginarlo. Pensare la politica in maniera scientifica significa, per le ragioni enunciate precedentemente, non applicare le regole democratiche.

Per lo scienziato il mondo consta di problemi da risolvere, più che di punti in comune da creare. La “soluzione” ai problemi si nasconde tra le cose: si tratta solo di vessarle e dissezionarle fino a carpirne i segreti necessari al raggiungimento del fine preposto. Se ciò non costituisce un problema per quanto riguarda le sostanze inanimate o perfino gli animali, il discorso cambia radicalmente quando questa prassi è applicata agli uomini. Pensare scientificamente la società significa reificarne i componenti e sottoporla ad esperimenti sociali continui fino al raggiungimento dei fini desiderati: successo e fallimento degli esperimenti in questione ricadono inappellabilmente ed arbitrariamente sulle popolazioni, le quali si trovano loro malgrado a pagarne le conseguenze.

Poiché lo scienziato si forma in un mondo di problemi da risolvere, la stessa società viene problematizzata. Mentre la politica considera sempre molteplici punti di incontro e differenti esiti possibili, la società, interpretata come un’espressione matematica, non può che consistere in un solo grande problema e con un solo esito possibile per ognuna delle sotto-operazioni da svolgere. È per questa ragione che la società tecnocratica è, come noto, fatta di scelte obbligate.

La politica delle scelte obbligate

Che si parli di sanità o di economia, pandemia o crisi del debito, “non c’è alternativa” sembra essere il motto delle moderne società tecnocratiche. Esattamente come un’operazione aritmetica deve avere un solo risultato esatto, conseguito tramite l’applicazione di regole ferree, anche la società problematizzata non può conoscere che un solo esito possibile, raggiungibile tramite norme tanto ferree quanto impersonali.

La concezione scientifica della politica si situa dunque agli antipodi della democrazia. In maniera assolutamente innocente, il pensiero scientifico condivide con quello totalitario una concezione ontologica bipartita. Se nel pensiero totalitario tutto è bianco o nero, amico o nemico, nel pensiero scientifico tutta la sfera del pensabile si riduce semplicemente alla dicotomia giusto-sbagliato: il pensiero scientifico è ontologicamente incapace di pensare la mediazione, e con essa la democrazia. Egemonizzata dai tecnocrati, la discussione politica si degrada in disfida tra teorie che non ammettono repliche le une con le altre se non nella forma di esperimenti, i quali sono però condotti non su sostanze inanimate ma su intere comunità umane ridotte al rango di cose. La pandemia in corso è, in tal senso, un esempio illuminante.

La politica che abdica, consapevolmente o meno, alle sue funzioni in favore della tecnocrazia, non può che conoscere la fine della democrazia per come l’abbiamo sempre conosciuta. La scelta, utopistica ma pericolosa, di vivere in una società completamente regolata dalla scienza potrebbe essere l’ultima vera decisione politica delle opinioni pubbliche occidentali, ma per compiere una scelta oggettiva e realmente consapevole occorre sempre tenere a mente le parole di Roberto Burioni: “La scienza non è democratica”.

 

Marco Malaguti
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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.