L’obbligo come violenza
Obbligare la singola persona o una collettività a sottoporsi alla inoculazione di un siero sperimentale è a tutti gli effetti un atto violento, perpetrato a danno di chi, oltretutto, ha monitorato la propria condizione di salute ricorrendo a tamponi costanti nel tempo, preservando sé stesso e gli altri da ogni forma di contagio.
L’obbligo cosiddetto vaccinale è pertanto espressione di una volontà prevaricatrice dell’altrui volontà, volontà prevaricatrice dissimulata dal richiamo ad un intento benefico in nome della collettività. Soltanto l’appello ai valori che hanno fondato l’Occidente, la cultura occidentale, avrebbe potuto costituire un argine alla predetta volontà violenta, tradottasi nell’anzidetta imposizione.
La legge come ancella del più forte
Valori culturali, filosofici, etici, morali, religiosi che hanno da sempre contraddistinto la nostra immensa civiltà. Ma la costante, voluta decostruzione di tali valori, la cancellazione di ogni richiamo etico, morale, di ogni principio naturale, “eterno”, che abbia svolto nei secoli la funzione di argine contro la hybris, spinge chi, pur in assenza di una investitura popolare, esercita temporaneamente il potere, ad assumere provvedimenti che si traducono nell’imposizione del proprio volere, ammantata di scientificità, di una scientificità ipotetica che mostra ad ogni passo la propria inesorabile fallacità.
La sostituzione inoltre del diritto naturale, ancorato ontologicamente a valori “naturali”, con il diritto positivo, consente di piegare quest’ultimo alle esigenze contingenti di chi esercita il potere, nell’assenza di qualsivoglia precetto superiore che imponga dall’alto il suo inesorabile rispetto. Il diritto positivo quale ancella della volontà del più forte frustra il senso stesso della carta costituzionale dei singoli popoli, adattando anche la “Grundnorm”, quantomeno la sua interpretazione, a qualsiasi scelta, anche di natura impositiva, esercitata da chi detiene il potere, determinando il venir meno della sua stessa vincolatività.
Venuto meno ogni valore assoluto, che impone il suo rispetto nell’attimo stesso dell’agire, qualunque condotta omissiva o commissiva può trovare una propria contingente giustificazione: nessuna punizione per chi viola norme che non abbiano più un carattere assoluto, con l’effetto che chi si trova anche temporaneamente ad esercitare un potere, può farlo imponendo agli altri la propria volontà anche in violazione del diritto degli stessi. Come affermano taluni filosofi, in assenza di valori assoluti, ogni azione diventa “innocente”, in quanto rispondente alla volontà del più forte, anche se tenuta a danno dei più deboli. L’esercente il potere giustifica tale esercizio richiamando la scienza, ma non quale espressione del dubbio, ma come fede nei postulati che giustificano l’agire impositivo.
Il silenzio della politica
Tutto ciò avviene nella silente presenza della politica, avviata oramai inesorabilmente al tramonto, incapace di esprimere il proprio dovere di rappresentanza dei cittadini, prona, nella maggior parte dei casi, all’esercizio del potere da parte del più forte. Tutto ciò non può non preoccupare chi abbia un minimo di sensibilità democratica, chi si sforzi di intravedere tuttora la presenza di valori che superino ogni limite temporale, capaci di imporsi “naturalmente”, quali entità metafisiche, anche a chi, accecato dall’hybris, pretenda di esercitare il potere al di fuori di ogni figura trascendente, valori che indichino in ultima analisi i limiti dell’agire umano.
Preoccupa peraltro se possibile ancora di più l’affievolimento della cosiddetta “politicità” greca determinato dall’esercizio assoluto del potere. Affievolimento della politicità da intendersi non soltanto rispetto alla gestione della cosa pubblica – pertanto come rinuncia da parte dei politici al proprio dovere di rappresentatività, che determina il preoccupante effetto della transizione dalla democrazia a forme di preoccupante oligarchia, costituendo peraltro anche la logica conseguenza della impreparazione culturale dei più – ma anche e principalmente in relazione alla socialità “politica” tra i cittadini e tra le persone, nell’oblio assoluto della figura aristotelica del “politicon zoon”.
L’uomo asociale e la morte della democrazia
Le scelte coscientemente operate in questi due ultimi anni (scelte che oltretutto hanno più volte evidenziato la loro fallacità) hanno determinato il venire meno di detta destinazione naturale dell’uomo alla Comunità, unitamente alla cancellazione dell’importanza dell’”agorà” nella quale la persona singola prende coscienza della sua capacità di decidere di sé, mediante la discussione pubblica. Ciò che sta avvenendo, con la cosciente o meno complicità di numerosi politici, determina il venire meno della socialità dell’uomo e della sua attitudine a decidere del proprio interesse, causando una lacerazione nel tessuto sociale che difficilmente potrà essere sanata.
Se i politici non sono capaci di comprendere quanto sta avvenendo intorno a loro, la profonda ferita che la indifferenza e la impreparazione di alcuni, rispetto all’agire assoluto e anche violento di pochi, causano al vivere civile, alla predetta politicità, significa che gli stessi hanno abdicato alla loro alta funzione, riconoscendo la propria inutilità. Potremmo quindi dire: ben venga allora la morte della politica; ma dicendo ciò dobbiamo avere la consapevolezza che detta morte porta con sé inesorabilmente la morte della democrazia che ha nutrito la nostra civiltà.
Preferisco quindi augurarmi l’avvento di un nuovo “katéchon” laico che ponga fine alla stagione dell’hybris, ricordando a noi tutti l’essenzialità di quei valori che hanno contraddistinto l’Occidente, quali guida costante dell’agire dell’uomo.
Avvocato cassazionista con sede a Firenze, esperto in diritto civile societario e in diritto penale di impresa e contrattualistica. Laureato in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Firenze.
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