di Fabio Bozzo

Cosa è il BRICS

BRICS… questo acronimo ricorrentemente suscita un po’ d’entusiasmo negli intellettuali affezionati alle ideologie forti. Almeno in quelle parti di tale mondo che, a 30 anni dal fallimento comunista, ancora rimpiangono l’URSS. O peggio da chi, a 70 anni dal crollo nazifascista, si ostina a rimanere in una Destra ormai improponibile (ossia persiste nel voler essere figlia di un Dio minore), in loco di una Destra conservatrice, sia liberale sia identitaria.

Cos’è il BRICS? Le lettere significano Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. Questi Paesi, antropologicamente diversissimi e geopoliticamente incompatibili sotto quasi tutti gli aspetti, dal 2009 hanno creato una sorta di club che, nei desiderata di parte della loro leadership, dovrebbe scalzare la supremazia economico-finanziaria dell’Occidente propriamente detto (sottolineiamo propriamente detto, poiché dal punto etno-culturale la Russia è in continuità con l’Occidente).

Da quel 2009 non passa anno senza che i leaders di questi Paesi non s’incontrino per firmare accordi energetici, economici o commerciali. Ad oggi tuttavia sono state evitate alleanze militari, il che già la dice lunga. Chiariamoci: tali trattati non sono solo fuffa, c’è anche del concreto. Ad esempio il mega accordo d’esportazione di gas naturale dalla Russia alla Cina è un evento da non prendere sotto gamba. Con tale intesa (ammesso che non subentrino sorprese geopolitiche, sempre possibili) la Russia garantirà alla Cina gran parte di quell’energia di cui è tanto bisognosa, ricavandone a sua volta un indispensabile flusso di liquidità.

Da notare che l’accordo sul gas è stato in parte una risposta alle dilettantesche mosse di Obama in politica estera. L’ex Presidente democratico, infatti, portò le relazioni russo-americane al minimo storico post Guerra Fredda. Sarebbe ingiusto incolpare di ciò unicamente l’Amministrazione Obama, preso atto che Putin è meno pericoloso di quanto cerchi d’apparire, ma entrare in contrasto con la Russia per questioni bene o male risolvibili col compromesso, mentre la Nuova Guerra Fredda anticinese era già in corso, fu per Washington una follia. Follia a cui l’Amministrazione Trump è riuscita solo in parte a porre rimedio. Vedremo come si comporterà il non propriamente arzillo Presidente Biden, anche se ad onor del vero ad oggi le sue azioni geopolitiche sembrano somigliare più a quelle trumpiane che a quelle obamiane.

Torniamo al BRICS. I motivi che hanno spinto i Paesi membri a tentare il sorpasso dell’Occidente con una sorta di “armata Brancaleone” sono vari, alcuni legittimi ed altri no. Il primo è la voglia di crescere in economia e potenza, cosa che ogni Stato meritevole della “S” maiuscola ha il diritto d’avere.

Vi è poi un fondo ideologico, cioè l’odio verso tutto ciò che è occidentale, in particolare gli Stati Uniti. Qui invece andiamo sul patetico, ossia sulla rabbia verso il trionfo occidentale, in particolare americano, nella Guerra Fredda, ed al tentativo fuori tempo di riscrivere la Storia. Ogni Paese del BRICS declina diversamente, in qualità e quantità, tale rancore.

Infine, ad eccezione della Russia, Paese antropologicamente europeo, è anche presente un astio di tipo etnico verso i Paesi bianchi. Tale livore è composto da un indefinibile mix di invidia, desiderio di rivincita storica e semplice razzismo. Inutile girarci intorno in nome del politically correct: questa è la realtà delle cose.

Analizziamo ora le reali possibilità geopolitiche degli Stati che compongono il BRICS.

Brasile: colosso sudamericano, globalmente ininfluente

Con quasi 214 milioni di abitanti, il Paese è un coacervo di contraddizioni. Ad una classe elevata si contrappone una massa di diseredati, circa il 20% della popolazione, con poche o nulle prospettive. L’economia, che fino a pochi anni fa aveva fatto sognare anche i più tiepidi antioccidentali, oggi (anche a causa della pandemia di covid-19) è sostanzialmente ferma, mentre le differenze regionali sono abnormi: ad un Sud relativamente prospero a maggioranza europea si contrappone un Nord a maggioranza nera avente parametri socio-economici simil Tanzania. La popolazione, specie nel Nord, è in costante aumento, e ciò accentuerà tensioni sociali e fragilità economica.

I Presidenti Lula e Rousseff, coerenti alla loro fede socialista, hanno attuato politiche di spesa, devastato il bilancio, comprato consenso oggi con soldi che speravano di guadagnare domani, aumentato il carico fiscale verso il produttivo Sud onde, con un abile welfare elettorale, vincere le elezioni grazie al parassitario Nord. Per non farsi mancare niente hanno anche raddoppiato la deforestazione dell’Amazzonia, alla faccia degli ecologisti di sinistra (che tanto danno sempre colpa alle multinazionali occidentali). E, ovviamente, si sono tuffati nel BRICS.

Tutto ciò, come inevitabile reazione, ha portato all’elezione dell’attuale Presidente Bolsonaro, una sorta di Trump in versione carioca. Bolsonaro ha certamente sterzato in direzione conservatrice su tutto lo spettro politico, sociale ed economico, ma il Brasile è un gigante difficile da governare, in cui dimensioni ed inefficienze varie fanno sì che gli stimoli dati oggi abbiano bisogno di parecchio tempo per farsi sentire a livello generale.

Conclusioni? L’economia brasiliana, per quanto enorme a livello regionale, non è certo in grado di competere con quelle europee, nordamericana o giapponese. I suoi parametri sociali interni lo rendono, checché se ne dica, un Paese in parte del Terzo Mondo ed in parte in via di sviluppo, seppur ricco di eccellenze da non sottovalutare. Infine le sue fratture interne, specie quella Sud-Nord, non ne fanno un Paese abbastanza solido da intraprendere una geopolitica di livello globale.

Russia: il miracolo della ricostruzione, ma il ghiaccio resta sottile

Da 30 anni a questa parte la Russia ha fatto passi da gigante, prima passando dal comunismo ad un’economia essenzialmente capitalista e poi rimettendo insieme i pezzi di uno Stato che stava diventando un insieme di feudi economico-mafiosi dei vari oligarchi. Oligarchi che, giova ricordarlo, non erano i cosiddetti “nuovi ricchi” della propaganda progressista occidentale, ma ex dirigenti di secondo livello della vecchia economia sovietica che approfittarono della loro posizione di vantaggio iniziale per rilevare sottocosto interi asset industriali. Putin, nei limiti del possibile, ha rimesso in riga tali personaggi e quantomeno ha restaurato la preminenza dell’autorità statale nei loro confronti. Ma 70 anni di delirio marxista non passano in fretta, molto resta da fare.

La Russia è un incrocio tra democrazia europea e autocrazia bizantina. Probabilmente si tratta di una transizione necessaria che ha stabilizzato il Paese, sebbene con lo scotto di dare una frenata statalista non solo alle libertà democratiche, ma anche alle forze più dinamiche dell’economia. Questa in ogni caso è migliorata in modo impressionante, sebbene resti ancora troppo legata all’esportazione delle materie prime, tanto che i ricorrenti sali e scendi del prezzo degli idrocarburi hanno ripercussioni immediate nella capacità di spesa pubblica. L’industria soffre di obsolescenza sovietica, anche se non mancano i segnali positivi. Le infrastrutture sono ancora insufficienti, ma il Paese è un cantiere aperto che in tale settore si sta dando da fare.

Finanziariamente la Russia non ha debito estero, ottimo risultato putiniano, raggiunto grazie ad un abile uso del denaro liquido ottenuto dall’esportazione delle materie prime. Tuttavia il Fondo Sovrano russo ha subito un terribile salasso nel 2009, anno in cui è stato usato a piene mani per tamponare la crisi, che in Russia ha picchiato duro.

Le forze armate, indispensabili per una politica di potenza, sono rinate dopo la cura del taglione fatta da Zar Vladimir, che ha ridotto gli effettivi ma enormemente migliorato gli equipaggiamenti e la tecnologia. Oggi rappresentano uno strumento formidabile, ma non paragonabile a quello degli Stati Uniti, con buona pace degli antiamericani. Da sottolineare però che, in quanto a volontà di affrontare eventuali crisi e di combatterle sul campo, i russi battono gli USA 3 a 1 (vedasi l’intervento in Siria) e senza gara con l’imbelle Europa.

Più difficile confrontare le capacità belliche russe con quelle della Cina. Tralasciando gli armamenti nucleari, nei quali USA e Russia non hanno nessuno al loro livello, Mosca sulla carta possiede la terza forza convenzionale più potente del mondo, recentemente superata da quella di Pechino. Il sorpasso cinese è amaro, ma era ineluttabile. Non solo la differenza di popolazione è abissale, ma l’economia del Dragone è enormemente più forte di quella dell’Orso russo, con una conseguente capacità di spesa che Mosca non può lontanamente sperare di eguagliare. Il tutto è aggravato dalle sanzioni economiche internazionali, che stanno danneggiando la Russia assai più di quanto non appaia.

Nel confronto con Pechino a Mosca restano quindi solo due carte in mano: un complesso militare-industriale di tutto rispetto e la consapevolezza americana che il vero pericolo per il mondo libero ormai non proviene dal Cremlino, ma dalla Città Proibita. Ne consegue che le leadership russa e statunitense, se vorranno affrontare gli appetiti globali del Dragone Giallo con sufficiente margine di sicurezza, dovranno appianare una volta per tutte le loro tante controversie con un compromesso che faccia “trovare la quadra” in tutte le zone del mondo in cui attualmente vi sono delle frizioni. Da notare che, malgrado la crisi in Ucraina, forse la ragionevolezza sta muovendo qualche timido passo in avanti. Un simile accordo (che già fu sul punto di nascere nel 2002 a Pratica di Mare) sarebbe vantaggioso per entrambi: gli Stati Uniti guadagnerebbero un alleato formidabile nella Nuova Guerra Fredda, mentre la Russia metterebbe lo stop agli appetiti siberiani della Cina ed al contempo entrerebbe definitivamente nella famiglia delle Nazioni occidentali, dove l’antropologia etno-culturale ha decretato che stia a dispetto di una storia tragica e sfortunata.

Infine la vera sfida del Cremlino: la demografia. In questa battaglia possiamo dire che Putin è stato un eroe, tanto da perdonargli le sbandate antioccidentali tipiche di chi non ha ancora digerito la sconfitta del suo Paese nella Guerra Fredda. Oggi la Russia ha 146 milioni di abitanti. Da 40 anni (quindi già dalla fine dell’epoca sovietica) si fanno pochi figli, al punto che le previsioni più pessimistiche pronosticano che nel 2050 i russi saranno circa 120 milioni. Ovviamente la popolazione islamica, oggi il 9% del totale, non fa che crescere, e questo non potrà che acuire l’instabilità interna, a cominciare dalle regioni caucasiche come Cecenia e Daghestan. Putin, con notevole sforzo economico, è riuscito ad invertire la tendenza: dal 2012 il Paese è tornato ad un leggerissimo saldo demografico attivo, anche tra i grandi russi (ossia i russi etnici).

Con tutto questo cosa possiamo dire della Santa Madre Russia? Che si tratta di una risorsa irrinunciabile per l’Occidente e che è, sarà e dovrà essere un potenza geopolitica, ma non può sperare di diventare una superpotenza come gli Stati Uniti e la Cina. Semplicemente perché non ne ha i numeri. Inoltre, per raggiungere gli obbiettivi di benessere e forza che giustamente coltiva, dovrà mettere da parte le ultime croste psicologiche post Guerra Fredda ed entrare definitivamente nello spazio occidentale, onde evitare un arretramento socio-culturale di stampo cinese, con relativa perdita di identità etnica.

India: l’imperfettissima funzionalità del caos asiatico ristrutturato dalla legislazione britannica

Con 1 miliardo e 210 milioni di abitanti è il secondo gigante demografico del mondo, e tra poco sarà il primo. Dagli anni ’90 in poi, con l’abbandono delle ricette socialdemocratiche in favore d’un maggiore liberismo, l’economia del subcontinente è cresciuta enormemente. Tuttavia è stata una crescita irregolare, tanto a livello geografico, dove ad alcune eccellenze regionali fanno contrasto zone sottosviluppate, quanto a livello sociale. In India infatti il 10% della popolazione possiede oltre un terzo della ricchezza, mentre oltre il 40% degli abitanti vive in povertà. Ricordiamo che nel 1981, in pieno periodo socialisteggiante, i poveri erano il 60%. Un miglioramento la cui lentezza lascia sperare comporti anche una solidità strutturale. Negli ultimi anni, dopo la notevole crescita, l’economia è rallentata, sebbene meno gravemente che in Brasile e Cina. La popolazione, che già oggi è eccessiva, continuerà ad aumentare nei prossimi decenni, sebbene anche in questo campo si cominci a vedere un inizio di inversione di tendenza.

Dal punto di vista sociale l’India è una sorta di caos funzionale. I miliardari discendenti dei bramini convivono con milioni di paria; il sistema delle caste, per quanto teoricamente illegale grazie ad una giustizia di impianto britannico (per la disperazione ideologica dei radical chic anticolonialisti nostrani), continua a condizionare il destino di centinaia di milioni di persone; la minoranza islamica è (chi lo avrebbe mai detto?) in aumento demografico e sempre più riottosa alle leggi civili. Nel Paese sono parlati 179 idiomi, tanto che, insieme all’hindi, anche l’inglese è ufficiale come lingua franca.

Questo magma etno-culturale è tenuto insieme da due fattori. Il primo è il fatalismo induista delle masse che, sebbene non blocchi lo sviluppo umano come l’islam, aiuta milioni di indigenti ad una serena rassegnazione: se quello è il tuo karma ribellarti è inutile, fai il bravo e ti reincarnerai in meglio. Il secondo stabilizzante è il sistema politico e giuridico di matrice inglese, che si basa su democrazia e federalismo. Il federalismo permette l’amministrazione di realtà locali, alcune più popolose della Germania, diversissime tra loro ed impossibili da tenere insieme col centralismo; d’altro canto la democrazia indiana non è certo quella svizzera, ma è comunque una democrazia, che permette a tutta la popolazione di esprimere il proprio pensiero, evitando che al potere salgano dei pazzi con troppi sogni di gloria. Anzi, ad onore dei politici indiani, bisogna riconoscere che il subcontinente, dal 1948 ad oggi, ha condotto una politica estera regionale, se paragonata alle proprie gigantesche dimensioni. Altro lascito della razionalità di scuola britannica.

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Gli unici grossi problemi esteri la Federazione Indiana li ha col vicino Pakistan (Paese musulmano sempre prossimo al collasso, con cui ha già combattuto e sostanzialmente vinto tre guerre) e con la Cina, la quale in passato aggredì l’India e le strappò una regione himalayana. Da allora gli scontri di confine non sono mai cessati del tutto, mentre la collaborazione con gli Stati Uniti è divenuta un’alleanza a tutti gli effetti. Altro che BRICS! Ad oggi le uniche gravi minacce militari che gravano su Nuova Delhi sono Pakistan e Cina, insidie compensate dalla coalizione con l’Occidente a guida USA. Coalizione che va a sovrapporsi con la storica amicizia e collaborazione scientifico-militare che l’India da sessant’anni intrattiene con Israele e Russia. Questa incredibile capacità di gestire per decenni diverse alleanze parallele, in cui l’interesse nazionale dei vari partecipanti annulla le differenze ideologiche, ha reso la diplomazia indiana una delle più concrete e quindi efficaci degli ultimi decenni.

Tuttavia, fatalismo esistenziale indù o no, la situazione non è rosea. La corruzione nel Paese è elevata, la crisi economica aggravata dal covid-19 s’è fatta sentire e molti indiani mostrano insoddisfazione. Non a caso negli ultimi tempi s’è assistito ad una deriva sciovinista, seppur sempre a livello parlamentare. A seguito di alcune vittorie elettorali dei nazionalisti i discorsi di politica estera si sono induriti, le persecuzioni contro i cristiani aumentate ed occasionalmente anche la retorica antioccidentale è cresciuta. A fare le spese di questa atmosfera sono stati anche i due Marò (vittime, oltre che del machismo indiano, dello squallore della Sinistra italiana). Per fortuna la dirigenza indiana, finora, ha sempre dimostrato di capire la differenza tra slogan “da duri”, per le campagne elettorali, e realtà geopolitica, per il concreto.

In conclusione si può affermare che l’India, se manterrà la stabilità interna, è e resterà un gigante, ma se vorrà continuare nella strada del progresso umano che ha intrapreso, tutto sommato bene, dovrà guardarsi da suicide tentazioni antioccidentali. I suoi nemici geopolitici sono gli stessi dell’Occidente, la sua economia è legata a filo doppio con le nostre e la sua struttura politica ne è un clone adattato alla realtà locale. Pertanto, se la leadership manterrà l’equilibrio e la saggezza dimostrati finora, il futuro sarà positivo; se invece cadrà preda della retorica terzomondista probabilmente assisteremo ad una frantumazione del Paese, cosa già avvenuta più volte nella storia dell’India.

Cina: gli ingordi prima o poi scoppiano

Con un miliardo e 444 milioni di abitanti è il Paese più popoloso al mondo, oltre che il terzo geograficamente più grande e quello che ha criminalmente “donato” all’umanità la pandemia di covid-19. Non possiamo certo definirlo un gigante dai piedi d’argilla, ma alcune crepe strutturali iniziano ad essere evidenti. Il partito unico comunista tiene ancora ferocemente le redini del potere e, dagli anni ’70 ad oggi, ha creato uno strano sistema “feudal-comunista” unico al mondo. Tale sistema, in teoria, garantirebbe la sostanziale libertà economica, pur mantenendo intatto il potere del partito. In realtà si è creato un regime dove un’oligarchia altolocata domina in modo satrapesco e si arricchisce sfruttando in maniera disumana la popolazione.

alle regioni costiere, orgogliose dei loro grattacieli tipo Manhattan, fanno da contraltare le arretrate province interne; le regioni del Tibet e della Mongolia Interna hanno subito un’accentuata sostituzione etnica da parte dei coloni d’etnia han inviati dal Governo centrale; l’inquinamento industriale cinese è diventato un problema di livello mondiale ben maggiore di quello USA; l’economia, dopo 40 anni di crescita vertiginosa, ha subito una brusca frenata e resta troppo legata alle esportazioni verso l’Occidente, in quanto il consumo interno, essenziale al benessere di un popolo, tra il grosso della popolazione rimane ai livelli dei Paesi in via di sviluppo.

Questi problemi non sono i soli. La politica del figlio unico, nata col lodevole intento d’impedire una sovrappopolazione insfamabile, ha anche generato problematiche inaspettate, tanto da dover essere abbandonata. Sicuramente la popolazione diminuirà nei prossimi decenni di qualche centinaio di milioni di individui, ma, prima di diminuire, invecchierà. Ciò significa che in un Paese privo d’assistenza sociale presto vi sarà qualche centinaio di milioni di anziani senza lavoro, senza pensione e senza figli in grado di sostenerli. Il tutto in un regime che valuta i suoi sudditi in base al rapporto consumo-produttività.

Anche la presa sul popolino comincia a mostrar crepe. Le proteste, anche violente ma per ora solo a livello provinciale, sono sempre più vaste e frequenti, scatenando (ovviamente) feroci repressioni. Ma la Storia insegna che alle rivolte seguono le rivoluzioni, ammesso che lo Stato non attui vere riforme, cosa che Pechino non sembra assolutamente aver voglia di fare. Anzi, da quando al vertice della Città Proibita è arrivato Xi Jinping, la leadership cinese si è bruscamente verticalizzata, dando all’attuale Presidente un potere persino superiore a quello avuto da Mao. Non a caso Xi ha fortemente rivalutato la figura del Grande Timoniere, messo da parte molte delle riforme di Deng Xiaoping ed attuato una vera restaurazione ideologica comunista. Il tutto condito da una propaganda ben oltre il limite del ridicolo (vedasi gestione e dichiarazioni a proposito della pandemia di covid-19) e da un controllo poliziesco interno degno di Stalin, ma che sa anche giovarsi delle moderne tecnologie informatiche.

Inevitabile che un regime ed un leader di questo genere in politica estera siano aggressivi ai limiti del ragionevole. Tale espansionismo è multiforme: a volte basato sugli investimenti economici e sul soft power, come in Africa, a volte su interventi più diretti, come in Birmania e recentemente in Kazakistan. Senza ovviamente dimenticare le contese territoriali dirette, secondo le quali Pechino si sente in diritto di minacciare Stati sovrani e per fortuna armati fino ai denti come Taiwan, Giappone e Vietnam. Dal momento che la politica estera del Dragone Giallo è stata già stata analizzata altrove limitiamoci a due considerazioni.

La prima è che l’espansionismo cinese (composto da un pericoloso mix di classico imperialismo sinico e messianesimo ideologico marxista-confuciano) ha creato un’enorme coalizione a guida statunitense che de facto circonda la Cina a livello globale. Per ora le problematiche con l’Occidente ed i lucrosi affari con Pechino hanno fatto sì che la Russia sia stata l’unica vera per quanto parziale sponda geopolitica della Cina, ma come abbiamo visto tale situazione è destinata a cambiare.

La seconda analisi riguarda invece la politica interna del Dragone. Xi Jinping, in forte rottura con la tradizionale pazienza sinica, sta spingendo sull’acceleratore del confronto con il resto del mondo. Da un lato ciò può apparire come un desiderio di vendetta per il “secolo dell’umiliazione cinese” (1840-1950) e come la voglia di far pagare il conto storico ad un Occidente rammollitosi e divenuto insicuro di sé stesso. Sebbene si tratti di una scommessa assai pericolosa possiamo in tutta onesta comprenderne le motivazioni, se non storiche, quantomeno psicologiche. Dall’altro lato, tuttavia, l’espansionismo di Pechino ricorda molto quello dell’impero ottomano nella seconda metà del ‘600. In quell’epoca i turchi avevano raggiunto la massima espansione territoriale, ma avevano anche inequivocabilmente imboccato la via della decadenza interna. La reazione a tale decadenza fu attaccare a testa bassa l’impero asburgico e tentare la conquista della Mitteleuropa. Il risultato fu la nascita di una vasta coalizione cristiana  che respinse l’assalto ottomano, strappò ai turchi circa la metà delle loro conquiste europee e rese la decadenza più veloce ed ineluttabile. Che l’aggressività cinese sia il frutto anche e non solo di problematiche interne è quasi certo. In tal caso il Dragone Giallo si sta avviando alla fase più pericolosa per se stesso e per il mondo, ma anche ad un probabile disastro di tipo ottomano.

Sudafrica: dalle speranze del politicamente corretto all’autodistruzione tribale

La Repubblica Sudafricana, con i sui 60 milioni di abitanti, ha deluso tutte le aspettative del post Apartheid, distruggendo il buono del vecchio sistema ed aumentandone il cattivo. Ma nel moralismo nichilista occidentale questo va bene, dal momento che ciò è stato fatto per l’emancipazione dei popoli non europei.

Il Sudafrica è un Paese quasi allo sbando. Lo Stato stenta a placare le rivalità tribali (in particolare tra Xhosa e Zulu), l’economia è in sfacelo, la corruzione fuori controllo e le minoranze bianca (9% del totale) ed indiana (2,5%) sono in fuga per evitare un progressivo genocidio. Il problema è che le ultime due etnie citate sono proprio quelle che tenevano in piedi l’economia. La popolazione nera è in costante aumento e non vi sono piani di controllo demografico, mentre la criminalità ogni anno consegna bollettini degni di una guerra civile. Aumenta anche l’AIDS, tanto che la popolazione infetta ha raggiunto la spaventosa cifra del 19%, quarto posto mondiale. E questo nello Stato dove, sotto un altro regime, quasi 53 anni fa venne effettuato il primo trapianto di cuore della storia. Vale la pena ricordare che nella comunità bianca la percentuale sieropositiva sia dello 0,3%.

L’industria, piccola e di nicchia sotto l’Apartheid, è in crisi totale. Discorso a parte merita l’agricoltura, che fino agli anni ’90 costituiva il cuore della produzione alimentare dell’intera Africa. Con il crollo del regime razzista (e quindi immorale) della minoranza bianca i successivi Governi neri hanno iniziato una progressiva quanto metodica campagna di esproprio senza indennizzo delle fattorie anglo-boere, condita di appelli allo sterminio puro e semplice dei bianchi lanciati dai leaders dei partiti neri, a cominciare da quello comunista. Risultato? Da granaio del continente il Sudafrica è passato ad un’irreversibile crisi del settore agricolo e della lavorazione alimentare. Unica branca a mantenere la sua storica importanza è quella mineraria, grazie alle immense ricchezze del sottosuolo ed agli interessi internazionali per la loro estrazione, per quanto con dati relativi inferiori al passato.

Con questi dati possiamo dire che il Sudafrica (salvo una scomposizione tribale, sempre possibile in Africa) resterà un’eccellenza nel panorama africano finché rimarrà l’impalcatura dello Stato creato dagli anglo-boeri. Quando le ultime tracce della Civiltà occidentale spariranno il Paese diventerà un classico rappresentante del suo continente: un esportatore di materie prime, con una dirigenza corrotta e ricchissima ed un popolo che muore di fame e pure di AIDS.

Qualche numero

Concludiamo la carrellata sui BRICS con alcuni numeri. I numeri non fanno politica e non hanno ideologia, ergo non sono accusabili di razzismo o di “occidentalismo culturale”. Oggi, di tutti i Paesi esaminati, solo la Cina può nutrire il sogno di scalzare gli USA dal gradino di prima potenza mondiale. Ciò potrebbe accadere nel caso che la demografia interna americana snaturi ciò che la popolazione degli Stati Uniti è stata fino ad oggi: una maggioranza europea che vive in un altro continente. Vediamo pertanto i rispettivi Prodotti Interni Lordi, riferiti per l’anno 2021, e le rispettive spese militari annue (senza l’esercito N.1 non si scalza l’impero N.1…).

PIL in milioni di dollari, fonte Fondo Monetario Internazionale:

  • USA 22.939.580  (primo al mondo)
  • Cina 16.862.979 (secondo al mondo)

Spesa militare annua in miliardi di dollari, fonte International Institute for Strategic Studies:

  • USA 738 (prima al mondo)
  • Cina 193.3 (seconda al mondo)

A questi dati bisogna aggiungere che, tanto nel PIL quanto nel bilancio militare, i dieci Paesi inseguitori sono tutti alleati degli Stati Uniti ad eccezione della Russia, la quale si colloca a metà del guado tra le due superpotenze.

Numeri freddi ed impietosi, con i quali molti antioccidentali dovranno accettare di vivere per almeno altri 40 anni, con buona pace dei pastrocchi geopolitici quali il BRICS, che fanno sognare solo i salotti terzomondisti radical chic tra un bicchiere di champagne ed un crostino di caviale.

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Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).