di Daniele Scalea

Mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’Ucraina, c’è un’altra situazione critica in Europa che merita comunque attenzione. Il riferimento è alla Bosnia-Erzegovina che, nelle parole del suo Alto rappresentante Christian Schmidt, non è mai stata così vicina al collasso dalla fine della guerra civile. A ulteriore riprova del momento critico, c’è la scelta degli USA di sanzionare niente meno che il componente serbo della triade presidenziale, Milorad Dodik.

Cerchiamo di capire cosa stia succedendo, facendo innanzi tutto un necessario passo indietro.

Cosa è la Bosnia-Erzegovina

Il Paese è spesso abbreviato con la sigla “BiH”, dalle iniziali del suo nome in lingua originale. Bosnia ed Erzegovina sono due regioni storiche, i cui nomi significano rispettivamente “Valle del fiume Bosna” e “Ducato”. Pur conoscendo una stagione di indipendenza politica, questi territori hanno sempre gravitato attorno (o sotto) potenze maggiori: in particolare, per secoli sono state dominate dall’Impero Ottomano. In quel periodo una maggioranza della popolazione si convertì dal cristianesimo all’islam. Nel 1878, col Congresso di Berlino, la Bosnia-Erzegovina passò sotto l’amministrazione austro-ungarica (l’annessione formale avvenne nel 1908), la quale cercò di esaltare l’identità particolare bosniaca, che inevitabilmente andò a coincidere con quella musulmana, in contrapposizione all’irredentismo degli abitanti croati (cattolici) e serbi (ortodossi). Oggi è comune chiamare i bosniaci musulmani, in senso etnico, “bosgnacchi”.

Dopo il disfacimento dell’impero asburgico la Bosnia-Erzegovina passò al Regno di Jugoslavia, non conservando però una fisionomia amministrativa distinta ma suddivisa tra vari oblast (“province”) e poi banati. La Bosnia-Erzegovina come entità unitaria, addirittura con lo status di repubblica federata, tornò dopo la Seconda Guerra Mondiale nella Jugoslavia comunista di Tito, desideroso di diluire la preponderanza serba.

Storia del conflitto etnico

Superfluo specificare che la convivenza tra le tre etnie presenti in Bosnia-Erzegovina fu spesso conflittuale. Durante il dominio ottomano i musulmani erano favoriti sui cristiani e concentravano nelle proprie mani potere politico e possedimenti terrieri. L’Austria-Ungheria favorì le componenti bosgnacca e croata in funzione anti-serba: ciò raggiunse il culmine durante la Grande Guerra, quando lo scontro etnico divenne armato. Tale violenza si ripresentò durante il secondo conflitto mondiale: l’occupante nazista consegnò la regione alla Croazia degli ustascia, che cooptarono i bosgnacchi (l’islamica fu riconosciuta come seconda religione ufficiale) e scatenarono un’autentica guerra di sterminio contro i serbi.

L’ultimo capitolo (ad oggi) delle violenze inter-etniche data, come noto, ai primi anni ’90, col disfacimento della Jugoslavia. Quando Slovenia e Croazia proclamarono l’indipendenza, i bosniaci si ritrovarono divisi: bosgnacchi e croati volevano seguirne l’esempio, i serbi rimanere nella Jugoslavia. Alla fine sia i serbi sia i croati costituirono proprie entità nei territori in cui erano maggioritari: quando i bosgnacchi ne rifiutarono la secessione, fu la guerra. Essa durò dal 1992 al 1995, provocò ampie stragi di civili e vide il decisivo intervento, a sostegno dei musulmani, non solo di volontari stranieri (non ultimi veterani della lotta anti-sovietica in Afghanistan) sponsorizzati dagli Stati del Golfo, ma pure delle potenze occidentali. La nuova Germania riunita, in ottica d’egemonia regionale, e gli USA, per finalità anti-russe, furono i Paesi in prima linea. Washington ottenne che croati e bosgnacchi cessassero le ostilità tra loro per unirsi nella lotta contro i serbi, coadiuvati dalla forza aerea della NATO. Alla fine i serbi acconsentirono a una pace negoziata con gli Accordi di Dayton.

Un protettorato internazionale

Di fatto, la BiH non è né un vero Stato, né una federazione. È una struttura, fragile e sui generis, che ha cristallizzato una situazione di conflitto lasciandola indeterminata. A comporla sono una repubblica – la Repubblica Srpska dei serbi – e una federazione – la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, che riunisce i territori a maggioranza bosgnacca e croata. Grosso modo esse occupano metà ciascuna della superficie del Paese. Vi sarebbe poi una terza, piccola entità: il Distretto di Brčko, che è conteso tra le due componenti maggiori e di fatto si auto-amministra. Le due entità maggiori hanno propri presidenti, governi, parlamenti, forze di polizia e una serie di poteri autonomi. Sono tuttavia subordinate a un potere centrale della BiH.

Per capire la peculiarità dell’assetto bosniaco, basti citare che la massima autorità istituzionale è in realtà un podestà straniero: si tratta del cosiddetto Alto Rappresentante. Esso non è nemmeno scelto dai cittadini bosniaci, bensì imposto dalle potenze estere. Fino al 2020 la sua nomina era sanzionata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ora ciò non avviene più: esso è invece scelto da un “Consiglio di Implementazione della Pace” (CIP) che negli Accordi di Dayton non era mai menzionato. Lo compongono 55 tra Stati e organizzazioni internazionali ma a far parte del suo Comitato esecutivo sono solo Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, USA, Presidenza dell’UE, Commissione UE, Organizzazione della Conferenza Islamica. Il CIP è considerato dalla Russia un espediente per tagliarla fuori (assieme alla Cina) dalla scelta dell’Alto Rappresentante. Ed anche la Repubblica Srpska si rifiuta di riconoscere l’ultimo Alto Rappresentante, eletto l’1 agosto 2021 senza passare per l’ONU.

Costui è Christian Schmidt, politico tedesco della CSU con una doppia esperienza ministeriale nel suo Paese. Si tratta del nono Alto Rappresentante, carica che solo Germania e Austria hanno ricoperto per due volte, a chiarire quali Stati abbiano maggiore influenza sulla BiH. Gli USA non hanno mai avuto un Alto Rappresentante ma hanno sempre espresso il vice (l’attuale è il diplomatico Michael Scanlan).

L’Alto Rappresentante ha poteri pressoché assoluti: può assumere decisioni vincolanti e rimuovere dall’incarico, con effetto immediato e senza diritto d’appello, qualsiasi funzionario eletto o non eletto (a oggi sono centinaia i funzionari bosniaci rimossi dal loro ruolo). Secondo le delibere del CIP, la figura dell’Alto Rappresentante sarà abolita quando verranno soddisfatte una serie di precondizioni. Tra quelle ancora inevase vi sono la risoluzione delle proprietà statali e militari (ossia decidere a quale soggetto bosniaco spetti ciascuna di esse) e quella sul distretto conteso di Brčko.

A proposito di influenza straniera sulla BiH, è doveroso citare la perdurante presenza di forze militari d’altri Paesi. Fino al 2004 essa era rappresentata dalla SFOR, una forza militare della NATO; quell’anno è stata sostituita dalla EUFOR della “Missione Althea”, una forza congiunta a guida UE il cui scopo è garantire la sopravvivenza della Bosnia-Erzegovina così come delineata nei trattati di pace e addestrare le forze armate nazionali. Si tratta di 600 uomini guidati dal generale austriaco Alexander Platzer. Gli ultimi nove comandanti (dunque dal 2009 ad oggi) sono di nazionalità austriaca; in precedenza era stata l’Italia, con due comandanti su 5, la nazione più rappresentata: un’ulteriore riprova della crescente influenza austro-germanica sul Paese.

La struttura istituzionale della Bosnia-Erzegovina

Al di sotto di questa sovrastruttura di protettorato internazionale, e al di sopra di quella delle entità autonome, esiste un livello “nazionale” che, comunque, risente fortemente della cantonalizzazione. La Presidenza dello Stato, infatti, è assegnata a un organo collegiale composto da un serbo, un croato e un bosgnacco. A turno, con avvicendamento ogni 8 mesi, uno di questi presiede la Presidenza stessa. Non ci sono limiti di mandati ma non si può ricoprirne più di due consecutivamente. Attualmente i tre membri della Presidenza sono il serbo Milorad Dodik, il bosgnacco Šefik Džaferović e il croato Željko Komšić. Quest’ultimo è molto contestato: si tratta infatti dell’esponente di un partito multietnico, eletto come membro croato grazie al voto determinante dei bosgnacchi. Bisogna infatti ricordare che croati e bosgnacchi sono riuniti in un’unica entità e, dunque, votano assieme. La Presidenza cura i rapporti diplomatici e propone, su indicazione del Consiglio dei Ministri, il bilancio al Parlamento.

Il potere esecutivo è assegnato al Consiglio dei Ministri, i cui membri sono nominati dal Presidente del Consiglio, a sua volta nominato dalla Presidenza e approvato dalla Camera dei Rappresentanti. L’attuale Presidente del Consiglio è il serbo Zoran Tegeltija, membro della nazionalista Alleanza dei Social-Democratici Indipendenti (ASDI) di Dodik. È stato a lungo ministro delle Finanze della Repubblica Srpska (2010-2018). Economista sessantenne, esponente di ASDI da oltre vent’anni, è considerato molto vicino a Dodik ma con uno stile più sobrio e cauto. Dopo le elezioni generali d’ottobre 2018 è passato oltre un anno prima che, nel dicembre 2019, si riuscisse a formare il nuovo governo presieduto da Tegeltija. Gli attuali ministri sono così ripartiti: 3 di ASDI, 2 di HDZ (partito conservatore gemellato con quello omonimo della Croazia), 2 del Partito Democratico di Azione (nazional-conservatore bosgnacco), 1 del Fronte Democratico (sinistra multi-etnica), 1 dell’Alleanza Popolare Democratica (partito serbo di destra).

Il potere legislativo è assegnato a un parlamento bicamerale composto da Camera dei Popoli (camera alta) e Camera dei Rappresentanti (camera bassa). I membri della camera alta sono 15 e sono eletti con incarico biennale dai parlamenti delle entità, in ragione di 5 serbi, 5 croati e 5 bosgnacchi. Il quorum è di 9 delegati, con un minimo di 3 per ciascuna nazionalità (in questo modo è garantito che possano passare solo leggi concordate tra le tre nazionalità). I membri della camera bassa sono 42 e sono eletti con incarico quadriennale in votazione diretta con ripartizione proporzionale, in ragione di 14 serbi, 14 croati e 14 bosgnacchi. La composizione attuale è determinata dalle elezioni generali del 2018. Ci sono 25 rappresentanti di maggioranza e 17 d’opposizione. L’attuale maggioranza è composta, in ordine decrescente di numero di rappresentanti, da Partito Democratico di Azione, ASDI, HDZ, Fronte Democratico e Srpska Unita – Partito Socialista (coalizione nazionalista serba).

LEGGI ANCHE
La Rete non è (di) sinistra: i video
La Repubblica Srpska in cerca di maggiore autonomia
carta bosnia erzegovina

Carta della Bosnia-Erzegovina (fonte: Wikipedia)

Il partito dominante nella Repubblica Srpska è stato fino al 2006 il Partito Democratico Serbo (PDS), fondato da Radovan Karadžić, protagonista della guerra degli anni ’90. Dal 2006 la presidenza della Repubblica è espressa dalla già citata ASDI. Se in origine il PDS rappresentava la fazione più nazionalista e radicale e l’ASDI quella più moderata, la situazione è oggi mutata. Attualmente il PDS ha posizioni più moderate di centro-destra, mentre l’ASDI ha un orientamento più marcatamente nazionalista ed è socialmente conservatrice. Nel 2012 è stata espulsa dall’Internazionale Socialista.

Il Parlamento della Repubblica Srpska ha approvato una mozione (non vincolante) che invita il Governo a recuperare alcune importanti prerogative ceduto al potere centrale: difesa, giustizia e fisco. Milorad Dodik, per otto anni presidente della Repubblica Srpska e oggi componente serbo della Presidenza della BiH, ha più volte ventilato anche la possibilità di una secessione.

A far precipitate la situazione, nel luglio scorso, la decisione dell’Alto Rappresentante uscente, l’austriaco Valentin Inzko, di imporre una legge che punisce penalmente chiunque neghi che quello occorso a Srbrenica nel 1995 sia stato un genocidio. La decisione è stata giustificata con la volontà di uniformare la legislazione bosniaca a quella di alcuni Paesi europei. Tuttavia, essa è stata percepita dai serbi come un’ennesima misura punitiva nei loro confronti, costantemente additati come responsabili della guerra civile e con la parte dei “cattivi” (il Tribunale Internazionale dell’Aja ha condannato in blocco le dirigenze serba e croata dell’epoca, colpendo invece in maniera più blanda quella bosgnacca). La decisione di Inzko ha esacerbato una situazione latente di tensione, determinata dal fatto che gli Alti Rappresentanti hanno sempre cercato di costruire un potere più centralizzato in BiH, cosa cui i serbi si sono opposti rimettendosi a quanto fissato negli accordi di pace, che garantiscono ampia autonomia alla Repubblica Srpska.

Le tensioni tra croati e bosgnacchi

Le azioni dei serbi sono maggiormente sotto i riflettori, perché sono il doppio dei croati (rispettivamente il 30% e il 15% della popolazione) e hanno una propria repubblica che copre il 49% del territorio del Paese. Non di meno, un altro fattore disgregativo in BiH si trova proprio nello scontro tra croati e bosgnacchi all’interno della loro federazione. Come si è già detto, in occasione della scelta dei membri della Presidenza tripartita i bosgnacchi hanno fatto valere il loro peso numerico per imporre un croato che, in realtà, non è il favorito dai croati stessi. Ciò ha ingenerato forti tensioni con l’HDZ, il partito conservatore gemellato con quello omonimo che, attualmente, esprime il primo ministro in Croazia. Partito fondato dal padre dell’indipendenza croata, Franjo Tuđman, che all’epoca, non a caso, cercò anche di inglobare una porzione di Bosnia-Erzegovina nello Stato nascente.

Lo scontro tra l’HDZ e i bosgnacchi sta contribuendo a bloccare le trattative per il varo del bilancio 2022, necessario, tra le altre cose, anche per tenere le elezioni previste a ottobre. Dodik sta cercando di inserire un cuneo in questa frattura, chiedendo la creazione di un’entità croata autonoma. La questione ha suscitato anche l’intervento del Presidente della Repubblica Croata, Zoran Milanović, che è oppositore dell’HDZ ma ha criticato il governo di quest’ultimo per essere stato troppo arrendevole e non aver bloccato l’UE dall’assumere posizioni anti-Repubblica Srpska. Milanović ha accusato i bosgnacchi di voler rubare le prossime elezioni – appunto scegliendosi da sé dei rappresentanti etnicamente croati ma sottomessi ai musulmani – ed ha elogiato Dodik come interlocutore. Quest’ultimo, dunque, incassa un altro importante sostegno in Europa, oltre a quelli scontati di Belgrado e Mosca e a quello di Viktor Orban. Anche il primo ministro ungherese, infatti, non fa mistero di simpatizzare per la Repubblica Srpska e, proprio in questi giorni, ha pubblicamente sollevato dubbi che si potranno mai integrare i due milioni di musulmani bosniaci nell’UE.

Non si può omettere poi di citare il caso del “non paper, ossia documento non ufficiale e non firmato, che circolò tra le cancellerie europee lo scorso anno e che molti attribuirono a Janez Janša, primo ministro della Slovenia allora presidente di turno dell’UE. Nel documento si ipotizzava di risolvere lo stallo bosniaco separandola su base etnica, così da dare infine soddisfazione all’anelito di croati e serbi di riunirsi alle madrepatrie, lasciando una più piccola Bosnia-Erzegovina etnicamente e religiosamente omogenea.

Le responsabilità dell’UE

La Bosnia-Erzegovina è, come narrato, uno Stato imposto con la forza da soggetti esterni contro la volontà di due delle tre componenti nazionali. A distanza di un quarto di secolo il carattere di artificialità non è venuto meno, come dimostrano sia la perdurante volontà dei serbi di separarsi dall’entità bosgnacco-croata, sia le tensioni interne a quest’ultima. Il lasso di tempo trascorso non ha per ora cancellato gli strascichi della guerra civile né tantomeno le radicate distinzioni etno-linguistico-religiose. L’UE, che ha progressivamente ereditato dagli USA la gestione della Bosnia-Erzegovina  ed esprime da sempre l’Alto Rappresentante, ha provato ad applicare il medesimo approccio funzionalista sperimentato su di sé. Ha cioè puntato sul fatto che all’articolazione istituzionale seguisse poi anche un’identità nazionale. Quest’approccio, che privilegia regole ed istituti trascurando l’anima dei popoli, la storia e la cultura, ha fallito in Europa come sta fallendo in BiH. In quest’ultima il risultato è una cantonalizzazione e più simile al modello instabile e conflittuale del Libano che a quello stabile e cooperativo della Svizzera.

Non va poi trascurata l’influenza dell’allontanarsi della prospettiva europea per la BiH. Nel Paese si percepisce come sempre più remota la possibilità di accedere un giorno all’Unione Europea. Ciò diminuisce ovviamente gli incentivi a seguire la strada tracciata da Bruxelles (o Berlino…) e predispone invece a seguire altre sirene: come quelle che cantano da Belgrado o da Mosca.

Il “grande gioco” geopolitico

Pur essendo passato un quarto di secolo da quegli eventi dei primi anni ’90, ci accorgiamo che certe logiche valgono tutt’ora. La contrarietà a una revisione dei confini nei Balcani Occidentali, da parte di Washington e molte capitali europee, deriva – più ancora che dal timore di scoperchiare un vaso di Pandora – dall’ipotesi che ciò possa favorire la Russia. I serbi sono, per ragioni culturali, storiche e d’opportunità, legati a Mosca. Questo legame non fa altro che essere stretto, però, proprio dall’atteggiamento partigiano degli altri. Solo l’Amministrazione Trump cercò di riequilibrare la posizione degli USA nei Balcani Occidentali: lo dimostrò quando mediò l’accordo tra Serbia e Kosovo, esercitando eguali pressioni sui due soggetti, anziché prendere le parti di Pristina contro Belgrado secondo la vecchia consuetudine di Washington. L’impressione è che Biden non seguirà la strada tracciata da Trump, tornando così ai vecchi favoritismi. In nome dell’ostilità a Putin, il nostro campo atlantico si ritroverà ancora una volta a frustrare le ambizioni di autodeterminazione di croati e serbi di Bosnia, per favorire l’egemonia dei musulmani in uno Stato artificiale che non sopravviverebbe un minuto senza l’ingerenza esterna.

+ post

Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.