di Daniele Scalea

E se vi dicessero che le varie restrizioni – dalla chiusura di scuole e negozi alle limitazioni agli spostamenti, dall’obbligo di mascherina – non siano servite a nulla sul fronte sanitario? E che persino il lockdown totale, il rinchiudervi in casa per mesi, abbia ridotto la mortalità da covid-19 di pochissimo?

Lo studio che condanna la strategia delle chiusure

Be’, c’è qualcuno che lo dice chiaro e tondo. Lo possiamo leggere in una recente pubblicazione della Johns Hopkins University, dal titolo A literature review and meta analysis of the effects of lockdowns on Covid-19 mortality. Gli autori sono tre economisti (Jonas Herby, Lars Jonung e Steve H. Hanke) e so che questo farà subito ribellare una certa classe di lettori, convinta che di sanità possano parlare solo i medici e di ippica solo i cavalli. In realtà, se si tratta di analisi dei dati – com’è il caso di questo saggio – degli economisti sono titolati almeno quanto i medici a parlare. E, comunque, l’obiezione perde ulteriore forza se a farla è chi si fida di più dei consigli medici di Cecchi Paone che di eminenti specialisti del settore come i firmatari della Dichiarazione di Great Barrington.

Andiamo ora a vedere nel dettaglio cosa scrivono Herby, Jonung e Hanke. I tre hanno compiuto una meta-analisi basata su 24 studi, selezionati in base a criteri stringenti (misurazione empirica degli effetti delle restrizioni sulla mortalità) tra un bacino di 18590 saggi. La loro conclusione è lapidaria: “I lockdown hanno avuto poco o punto effetto sulla mortalità da covid-19”. In media la riduzione della mortalità è stata dello 0,2%; anche in occasione delle restrizioni più severe – ossia gli arresti domiciliari per l’intera popolazione – la riduzione appare minuscola: 2,9%.

Chiudere con lo scientismo e il culto della “necessità”

Ovviamente, una persona potrebbe contestare che anche una riduzione della mortalità di nemmeno il 3% sia bene incommensurabile, trattandosi di vite umane. Sono però vite umane pure quelle – non vissute, o rovinate economicamente – delle persone rinchiuse in casa o impedite di lavorare. Come abbiamo più e più volte sostenuto, la questione è puramente valoriale: preferisco essere libero, correndo tutti i rischi del vivere liberamente, o rintanarmi in casa e sottomettermi in toto allo Stato, guadagnando così, forse, uno o due anni di vita? La mia risposta in merito è chiara e netta, ma altri legittimamente potrebbero avere un’idea diversa. Il problema si pone nel momento in cui questi altri vogliono imporre la propria idea a me, i miei cari e miei figli, in nome di una “Scienza” infallibile che avrebbe parlato e sentenziato.

Non esista nessuna “Scienza” del genere. Salvo che si tratti di decidere a che temperatura bolle l’acqua, la scienza è da sempre plurale, dialettica e provvisoria. La scienza dà utili indicazioni, ma le scelte individuali o collettive sono poi frutto della volontà, non della necessità. Chi crede al contrario pensa di essere “dalla parte della Scienza”, ma in realtà sostiene solo un volgare scientismo, meccanicista e riduzionista.

La natura plurale della scienza ci è confermata pure dal meta-studio della John Hopkins University. I tre autori si sono interessati al soggetto proprio vedendo l’enorme discrepanza tra modelli epidemiologici che prevedevano stermini in assenza di lockdown, ed altri che contestavano tale conclusione. Uno dei più influenti fu quello di Neil Ferguson, che assieme all’esempio cinese e poi italiano stimolò la linea chiusurista in quasi tutto l’Occidente. Eppure fin dall’inizio si registrarono voci dissonanti, che ritenevano sbagliata la strategia del lockdown.

La débâcle dei modelli matematici predittivi

La clamorosa distanza tra quanto previsto nei modelli matematici astratti (quello di Ferguson & Co. prometteva una diminuzione della mortalità del 98%, non del 2,9% come rilevato da Herby, Jonung e Hanke) ha ispirato una recente riflessione di James Lewisohn su “The Daily Sceptic”. Il titolo è eloquente: “Bisognerebbe mettere al bando tutti i modelli predittivi?”.

Nemmeno Lewisohn è un medico, ma si è confrontato per tutta la vita coi modelli matematici facendo il banchiere e poi l’analista finanziario. E li ha non sempre ma spesso trovati difettosi, esattamente come quelli realizzati ora dagli epidemiologi. Cita un altro modello realizzato da Ferguson, nel 2009, relativo all’influenza suina e che prevedeva uno “scenario peggiore” (worst-case scenario) di 60.000 morti: furono in realtà meno di 500. Lo scorso dicembre, invece, il SAGE (il “comitato tecnico-scientifico” dei britannici) ammoniva che, se Boris Johnson non avesse adottato misure ancora più stringenti di quelle del Piano B, si sarebbe potuti arrivare a 6000 morti al giorno. In realtà, il picco si è toccato a 289.

Questi sono i modelli matematici degli esperti che hanno deciso delle nostre vite negli ultimi due anni. Optando costantemente per reprimerle e recluderle.
Quando ci decideremo a urlare: “Basta!”?

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

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Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.