Venerdì 11 febbraio l’Italia di Draghi ha detto finalmente addio all’obbligo di indossare mascherine all’aperto. Obbligo che, sia chiaro, non è diventato improvvisamente irragionevole a causa di una vera o presunta decrescita dei contagi (peraltro il tracciamento è saltato da mesi e a quanto ammontino i contagi reali oggi nessuno può saperlo), bensì era assurdo e sproporzionato ab origine (eccezion fatta per manifestazioni di piazza, grandi eventi e qualche via molto affollata nei centri storici delle maggiori città).
A cosa serviva davvero la mascherina all’aperto
L’obbligo di indossare la mascherina mentre si cammina per strade semivuote ha sempre avuto ben poco a che fare con la salute pubblica e molto con la politica e la psicologia: l’imposizione di una pratica afflittiva e palesemente insensata permette di capire parecchie cose sulla natura di un popolo, oltre a condizionarne gli umori e gli orientamenti.
In primo luogo, ha consentito di valutare – anche solo a colpo d’occhio – il tasso di obbedienza acritica ai dettami, per quanto irragionevoli, dell’autorità: tasso che in Italia si è rivelato decisamente elevato. In secondo luogo, ha costretto i “dissidenti” a scegliere tra adeguarsi e subire oppure palesarsi, rendendosi immediatamente visibili e riconoscibili agli occhi del potere e dei suoi delegati, ma anche dei colleghi o dei vicini di casa. Infine, ha creato una profonda frattura sociale, trasformando, agli occhi della maggioranza degli italiani, un pacifico cittadino che porti a spasso il cane in un parco semideserto – senza indossare la mascherina – in un terrorista che minaccia la salute pubblica.
In tutto ciò, naturalmente, ha giocato un ruolo fondamentale il costante martellamento dei mass media, che da due anni a questa parte fanno a gara nel cercare di convincerci che fuori di casa c’è l’apocalisse e che dobbiamo affidarci in toto alle promesse salvifiche del governo e delle multinazionali del farmaco.
I nostalgici della mascherina
Pensare, oggi, che la sopracitata frattura si ricomponga immediatamente e senza lasciare cicatrici grazie alla retromarcia del governo, che ha finalmente abolito l’obbligo di mascherina all’aperto, sarebbe decisamente ingenuo. La cosiddetta “nuova normalità”, imposta per mesi a suon di decreti e dpcm, si è infatti impressa nella psicologia delle persone: prova ne sono i peana di Caterina Soffici su “La Stampa” o dell’immarcescibile Massimo Gramellini – impareggiabile nell’infiocchettare banalità atroci con così tanta arte da poterle spacciare per massime di saggezza – sul “Corriere”.
I due campioni del politicamente corretto, infatti, spargono lacrime in memoria del defunto obbligo di girare con la museruola, di cui “già sentiamo un po’ di nostalgia”, perché “la mascherina ci mancherà” e “molti continueranno a indossarla lo stesso”. In fondo, va detto, entrambi riconoscono almeno implicitamente che la mascherina all’aperto non serviva a nulla, era una coperta di Linus buona solo a far sentire le persone più sicure. Indossarla anche in totale solitudine null’altro è che un gesto apotropaico volto ad allontanare il terrore del contagio e della morte, un modo per autoconvincersi di essere al sicuro, per sentirsi dei bravi cittadini, per illudersi che la situazione sia sotto controllo.
L’individuo fragile
Come ammette proprio Gramellini, “per fortuna c’è carnevale alle porte, che fornirà un ottimo alibi per rimetterla ed evitare di travestirsi da sé stessi”, ovverosia per evitare di esporsi al mondo e ai suoi pericoli come un singolo, mettendo a nudo la propria individualità, perché si sa che il mondo è grande e immense sono le forze che ne determinano il corso, mentre l’individuo è, a confronto, sempre fragile e indifeso.
Tuttavia, se l’uomo si è da sempre autopercepito come un animale sociale, va anche detto che il suo modo di rapportarsi ai propri simili è ben diverso da quello della formica o dall’ape. L’essere umano, come intuì il fondatore della psicanalisi Sigmund Freud nel suo Il disagio della civiltà, ha un bisogno innato di agire sul mondo manifestando la propria individualità: pertanto, la spinta all’omologazione impressa dalla società provoca nel singolo delle sofferenze psichiche tanto più grandi quanto più repressivo e omologante si presenti un dato contesto sociale.
Sopravvivere o vivere?
Da decenni l’Occidente ha ormai smesso di interrogarsi sui problemi di fondo dell’antropologia filosofica: chi sia l’uomo, quale sia il suo posto nel cosmo, di cosa egli abbia bisogno. Tuttavia, solo a partire da una visione chiara dell’essere umano e del suo rapporto col mondo è possibile immaginare un modello di società che sia al servizio dell’uomo, anziché rendere l’uomo servo.
La natura dei dilemmi che dobbiamo affrontare non è scientifica o tecnica, ma etica: occorre, ad esempio, decidere se il mero perdurare delle funzioni vitali di base per il lasso di tempo più lungo possibile e per il maggior numero possibile di persone sia effettivamente il fine ultimo cui una società debba tendere, o se invece, come sosteneva Rita Levi Montalcini, sia più importante aggiungere vita agli anni piuttosto che anni alla vita.
Personalmente, credo che occorra una presa di posizione forte e coesa da parte di tutti coloro che, nel mondo della cultura, si rifacciano a idee libertarie, ancor prima che liberali: è tempo di affermare che la vita va vissuta appieno, anche se comporta dei rischi, i quali ne sono peraltro da sempre una componente ineliminabile. Occorre ribadire che, più della morte (corollario ineludibile di ogni vita), bisogna temere la non vita che abbiamo tristemente avuto modo di sperimentare in questi due anni, e che nello spazio che intercorre tra “sopravvivere” e “vivere” si collocano tutte quelle dimensioni che ci caratterizzano come esseri pienamente umani.
Post scriptum
Nelle settimane passate, per le strade di Roma, ho avuto modo di notare come quasi tutti gli stranieri girassero senza mascherina, mentre gli autoctoni apparivano quasi tutti ligi a quanto stabilito dal governo. Questo indubbiamente può dirci qualcosa sul carattere più o meno conformista degli italiani, ma dovrebbe spingere anche a una riflessione su come i media nazionali abbiano raccontato la pandemia e come l’abbia invece narrata la stampa estera.
In Belgio, ad esempio, è stato ampiamente evidenziato come nel 2021, nonostante il clima rigido di quei luoghi, la covid abbia rappresentato solo la quarta causa di morte dopo tumori, infarti e malattie respiratorie non correlate al virus, così da inquadrare correttamente la pandemia nel contesto più ampio: un approccio ben diverso, come potete vedere, dall’allarmismo senza fine di moltissimi giornalisti di casa nostra.
Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, ha lavorato come consulente presso Parlamento Europeo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati e Ministero dello Sviluppo Economico. Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano.
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