Quando, nel 2016, uscì nelle sale Warcraft – L’inizio, film fantasy tratto dall’omonima serie di videogiochi, ebbe un riscontro insolito: a metà anno negli Stati Uniti aveva incassato soli 30 milioni di dollari (a fronte di 160 milioni di spese di produzione), ma in Cina ne aveva fruttati già 190 milioni. Ciò era dovuto a tutta una serie di ragioni, tra le quali c’era l’ipotesi che il folklore fantastico (fatto di orchi, nani e stregoni tipico della tradizione occidentale) avesse iniziato a riscontrare un successo di massa tra le giovani generazioni di cinesi proprio grazie ai videogiochi della saga di “Warcraft”, iniziata nel 1993.
Questo esempio illustra come, tra il colosso asiatico e l’Occidente, permangano differenze culturali molto marcate, che si riflettono anche nel modo in cui vengono recepiti tutta una serie di prodotti d’intrattenimento. Alcune volte la Cina ha cercato di sfruttare le proprie aperture per adottare strategie di soft power, altre invece è riuscita a censurare pesantemente prodotti stranieri, visti come non in linea con i valori che lo Stato vorrebbe imporre alla società.
Cinema
Per capire come in Cina lo Stato possa intervenire in maniera radicale per creare una distanza culturale rispetto al resto del mondo, basti pensare che da loro non è uscito il film Spider-Man: No Way Home, che pure a livello globale è riuscito a incassare più di 1,6 miliardi di dollari. In generale, i film dei supereroi “Marvel” non sono mai stati molto ben accetti in Cina, in un periodo in cui già stavano diminuendo le proiezioni di film di Hollywood. Per anni l’industria del cinema americano ha avuto accordi scritti con il governo di Pechino per l’esportazione di pellicole nel Paese: l’ultimo di tali accordi si è concluso nel 2017 e, da allora, il numero di film importati è diminuito gradualmente, passando da più di 30 titoli nel 2019 a meno di 20 nel 2021.
Secondo un’analisi del sito americano “Deadline”, ciò sarebbe dovuto a tutta una serie di fattori. Il primo è che, secondo il Partito Comunista Cinese, tali film presentano “una versione distorta del politicamente corretto” e fanno “un uso improprio di elementi cinesi”, come riportato in un recente articolo del quotidiano filogovernativo “Global Times”. La seconda di tali accuse è stata rivolta in particolare al film Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, che ha per protagonista un supereroe di origini cinesi ispirato ai vecchi di film di arti marziali con Bruce Lee.
Un’altra questione riguarda il fatto che, se un attore o regista dice qualcosa di critico verso la Cina, di norma i suoi film vengono banditi nel Paese. Questa può essere una delle ragioni per cui hanno ostracizzato il film Eternals, la cui regista, la cinese emigrata negli USA Chloé Zhao (vincitrice dell’Oscar come miglior regista nel 2021 per Nomadland), ha definito il Paese natale “un posto dove ci sono bugie ovunque”.
La Cina aspira da tempo a diventare il più grande mercato cinematografico al mondo: nel Paese si trovano oltre 82.000 sale cinematografiche e si prevede che arriveranno a superare le 100.000 entro il 2025. In anni passati i cinesi hanno provato a produrre film appositi per esercitare un certo soft power fuori dai confini nazionali: nel 2015 uscì il film L’ultimo lupo, finanziato dal governo cinese e diretto dal regista francese Jean-Jacques Annaud, noto per aver adattato Il nome della rosa di Umberto Eco.
Il caso di Annaud è esemplare per capire la loro tattica. Nel 1997 egli diresse Sette anni in Tibet, film tuttora al bando in Cina per le sue posizioni filo-Dalai Lama, e lo stesso regista per anni non poté entrare nel Paese. Negli anni precedenti all’uscita de L’ultimo lupo, Annaud fece pubblicamente marcia indietro sul precedente sostegno alla causa del Tibet libero. Inoltre ha parlato bene dei censori cinesi che, stando alla sua versione, gli avrebbero dato carta bianca per l’ultimo film, dove tuttavia ha ridotto i riferimenti critici verso il governo cinese che si trovano nel romanzo originale da cui è tratto, per farne una semplice storia sul rapporto tra uomo e natura.
Un altro caso degno di nota riguarda The Great Wall, film d’azione fantasy uscito nel 2016 che presentava l’attore americano Matt Damon nei panni del protagonista. Nonostante agli occhi di molti analisti fosse parte di una strategia per influenzare positivamente la percezione della Cina all’estero (la casa di produzione “Wanda” che l’ha finanziato è vicina al Partito Comunista), il film fu accusato dalle comunità asiatiche in America di whitewashing, ossia di consentire ad un bianco di sottrarre un ruolo che apparterrebbe ad un’altra etnia.
Fumetti
Negli anni la Cina ha fortemente censurato anche i fumetti stranieri e, in particolare, i manga giapponesi. In quest’ultimo caso è dipeso dal fatto che molti cinesi hanno tuttora il dente avvelenato nei confronti del Sol Levante per i crimini di guerra compiuti dalle truppe nipponiche durante la Seconda Guerra Mondiale. Ad esempio, nel febbraio 2020 due piattaforme di fumetto online cinesi, “Bilibili” e “Tencent”, hanno rimosso il manga “My Hero Academia” per via di un personaggio chiamato Maruta. Questo era un nome in codice per le vittime di esperimenti effettuati dai giapponesi sui prigionieri cinesi durante la guerra.
Più di recente, nel luglio 2021, in seno ai tentativi di stroncare le rivolte pro-democrazia a Hong Kong, le autorità cinesi hanno arrestato cinque membri di un’associazione che pubblicava libri e fumetti per bambini, con l’accusa di sedizione. Attraverso le immagini di pecore e agnelli, i libri in questione narravano una serie di episodi che vedevano i cittadini di Hong Kong contrapposti alle forze dell’ordine di Pechino. Perciò la polizia ha accusato gli interessati di essere dei “cospiratori sediziosi”.
Videogiochi
Anche sui videogiochi lo Stato cinese è intervenuto con numerose limitazioni, non solo per ragioni politiche ma anche per prevenire la dipendenza tra i ragazzi: a fine agosto 2021 è stato decretato che i giovani sotto i 18 anni potevano giocare non più di un’ora al giorno e tre ore alla settimana. L’Amministrazione della Stampa e delle Pubblicazioni Nazionali ha emesso la direttiva “per un’efficace prevenzione della dipendenza dei minori dai giochi online”, al fine di affrontare il problema dell’uso eccessivo. Anche il limite massimo che un bambino può spendere in videogiochi è stato abbassato a 200 yuan (circa 28 euro) al mese.
Quello di voler ridurre la dipendenza dai giochi è un discorso legittimo, che tuttavia ha danneggiato pesantemente l’economia del settore: a inizio gennaio, “Wired” riportava che questa politica ha causato la chiusura di oltre 14.000 aziende videoludiche, alle quali vanno aggiunte quelle che si occupavano di merchandising, della pubblicità e dell’editoria. E bisogna considerare che, quando sono entrati in vigore i divieti, la Cina presentava il bacino di videogiocatori più grande al mondo: 520 milioni di persone, attraverso le quali il settore generava un fatturato di oltre 43 miliardi di dollari.
Ma ci sono stati anche casi di videogiochi contestati in Cina per ragioni politiche: è il caso di Life is Strange: True colors (di produzione americana e distribuito nel settembre 2021 dalla società giapponese “Square Enix”), poiché era presente la bandiera degli indipendentisti del Tibet. Ciò ha suscitato l’ira dei giocatori cinesi, che sulla piattaforma “Steam” hanno tempestato il gioco di recensioni negative.
Ma parallelamente a questi episodi di censura, la Cina ha investito nei videogiochi molte risorse per accrescere il proprio soft power. Per rafforzare l’identità nazionale è stata avviata la produzione di giochi di guerra a sfondo storico: Il Guardiano invisibile, dedicato alla seconda guerra sino-giapponese; Missioni gloriose, controparte cinese di Call of Duty, pensato anche per addestrare i soldati nel mondo reale; Viaggio senza paura, dedicato alla “resistenza” contro gli USA nella guerra di Corea.
Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate Mosaico, Cultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).
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