di Daniele Scalea

La crisi internazionale attorno all’Ucraina, che focalizza l’attenzione mondiale da settimane (ed è in realtà solo un momento acuto di una contesa pluriennale se non pluridecennale), è giunta a un momento di svolta col riconoscimento formale delle Repubbliche Popolari di Donec’k e Lugansk da parte della Federazione Russa. Il momento è appropriato per svolgere alcune considerazioni intorno alla crisi. Siccome il commento vuol essere pragmatico e aderente alla realtà fattuale, cominceremo con lo sgombrare il campo da alcuni equivoci indotti dalla retorica delle due parti.

Il mito del “diritto internazionale”

Il diritto internazionale non esiste. O meglio: esiste, ma solo per regolare questioni minori nei momenti di pace tra attori reciprocamente amichevoli. Quando il clima si surriscalda e le divisioni tra le parti interessate sono più profonde, ognuna cerca di far valere la forza più del diritto, o se vogliamo di tramutare la propria forza in diritto (“might makes right”, dicono gli anglofoni). Silent leges inter arma, predicavano gli antichi: quando parlano le armi, tacciono le leggi. E nella nostra epoca in cui le guerre non si dichiarano più, esse non cominciano e non finiscono mai ma proseguono incessantemente (quasi sempre a bassa intensità). Le armi non sono più solo le spade affilate, ma ogni strumento o azione atto a danneggiare l’avversario, secondo i dettami della guerra asimmetrica e della guerra ibrida. Queste armi sui generis non tacciono mai, sovrastando sempre la voce del diritto, delle leggi e anche dei trattati.

La “comunità internazionale” esiste solo come formula giornalistica o diplomatica. Non esiste uno “stato di diritto” delle nazioni con corti di giustizia imparziali. I tribunali internazionali rappresentano sempre la “giustizia” dei vincitori, esercitata in genere con l’equità di Brenno. Il che non significa che i fatti esposti in detti tribunali siano falsi e i condannati innocenti, ma solo che essi sono per costituzione partigiani ed esercitano una giustizia mirata e parziale: a Norimberga furono condannati veri criminali nazisti, ma su sentenza di Iona Nikitchenko e sulla base della requisitoria di Roman Rudenko – ossia veri criminali comunisti.

L’accusa rivolta alla Russia di violare il diritto internazionale è nel contempo fondata e meramente propagandistica. Senz’altro i giuristi possono individuare pretestuosità nelle argomentazioni addotte da Mosca, così come è palese la violazione degli Accordi di Helsinki (in realtà non vincolanti) e del Memorandum di Budapest (con cui l’Ucraina rinunciava alle armi nucleari depositate entro i suoi confini in cambio di garanzie sull’integrità territoriale). D’altro canto è fin troppo facile notare come tali argomentazioni – infarcite di richiami all’autodeterminazione dei popoli, di denunce di genocidi, di responsabilità di proteggere – altro non siano che uno scimmiottamento di quelle utilizzate da Paesi della NATO, in anni recenti, per giustificare attacchi militari contro la Libia e la Jugoslavia. Pensiamo alla crisi del Kosovo nel 1999: la situazione è simile ma le parti rovesciate. All’epoca Mosca non riconosceva il diritto alla secessione della regione a maggioranza albanese; diritto che la NATO difese e impose armi in pugno. Negli stessi anni – e la cosa continua ancor oggi – i medesimi Paesi della NATO frustrarono armi in pugno il diritto a secedere dalla Bosnia-Erzegovina della Repubblica Srpska a maggioranza serba.

Il “diritto” è quasi sempre un mero argomento di propaganda. Il posizionamento dei Paesi sulle questioni e le crisi è determinato dalla volontà, dagli interessi e dalle alleanze. La valutazione di ciò che è giusto e sbagliato può influire su tale determinazione, ma di rado è l’elemento decisivo e sicuramente non lo è in questa crisi ucraina.

Il mito dei “diritti storici”

Se la NATO punta sul diritto, la Russia difende la moralità delle proprie azioni richiamandosi principalmente alla storia. Una buona fetta del discorso del presidente Putin di ieri era dedicato proprio alla ricostruzione storica. Gli argomenti addotti da Putin non sono stati affatto peregrini, come sostiene certa critica. È vero che l’Ucraina nacque in seno alla medesima civiltà russa (anzi, si potrebbe dire che la Russia sia nata da una costola dell’Ucraina) e che per lungo tempo fu un tutt’uno con la Russia stessa; è vero che la Crimea e gran parte dell’odierno sud-est ucraino furono strappati ai musulmani da Mosca e ripopolati da coloni russi, tanto da essere chiamati “Nuova Russia”; è vero che i confini dell’Ucraina post-sovietica discendono da quelli dell’Ucraina sovietica e sono in buona parte frutto dell’arbitrio della dirigenza comunista.

A queste ottime e corrette argomentazioni di natura storica l’Ucraina può replicare con altrettanto ottime e corrette argomentazioni d’eguale natura. L’identità particolare ucraina si è sviluppata solo in età moderna (i nazionalisti ucraini la predatano di molti secoli, ma ciò non è necessario) però è oggi una realtà evidente. Gli ucraini possono sostenere che, se ha fatto tanta fatica a radicarsi, è stato anche perché Mosca l’ha a lungo combattuta e repressa: se non avesse perseguitato i Taras Ševčenko verosimilmente l’identità ucraina avrebbe avuto un successo più rapido. Il fatto che molti ucraini abbiano sangue russo nelle vene non significa che non possano percepirsi come una nazione distinta. Se gli abitanti del Donbass sono in maggioranza russofoni e d’identità russa è anche perché, nell’epoca dello sviluppo industriale di tale regione, essa ricevette una soverchiante immigrazione dalla Russia. Infine, non è colpa dell’Ucraina se il regime comunista sovietico le diede questi confini, o quanto meno non lo è più di quanto possa esserlo di Putin stesso, per vent’anni membro del PCUS e del KGB.

Questa vicenda esemplifica come, di rado, in una diatriba internazionale le ragioni stiano tutte da una parte e i torti dall’altra. In genere ogni parte ha buone ragioni e torti marci. Ciò è tanto più vero quando si chiama in causa la storia, per sua essenza terribilmente complessa, sfaccettata e aperta a mille interpretazioni. Protagonisti e osservatori di una crisi possono essere genuinamente convinti di agire spinti dalla moralità, ma la loro individuazione del “giusto” è sempre influenzata dai pregiudizi, dalle affinità con una o l’altra parte, o dal cinismo brutale dell’interesse materiale.

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La realtà strategica

La realtà è che non si combatte né per il diritto né per la storia. In Ucraina si combatte perché da lì passano gli equilibri strategici tra la NATO e la Russia. Meno di 500km d’autostrada separano il confine ucraino da Mosca. Se il Paese fosse nella NATO – ha dichiarato ieri Putin – l’alleanza atlantica sarebbe in grado di dominare i cieli russi fino agli Urali e di sferrare attacchi missilistici (potenzialmente anche un first strike nucleare) difficilmente parabili. Il Presidente russo ha persino paventato che l’Ucraina possa dotarsi autonomamente di capacità nucleari. E ha chiarito che non si fida delle rassicurazioni provenienti dalle capitali occidentali: “Ci ripetono che non è in agenda l’ingresso dell’Ucraina nella NATO, che non succederà domani. Ma dopodomani?”.

Mosca ha qualche ragione per non fidarsi delle mere rassicurazioni verbali. Al momento della riunificazione tedesca e dello scioglimento del Patto di Varsavia, il Cremlino ricevette da USA, Germania, Francia e Gran Bretagna rassicurazioni sul fatto che la NATO non si sarebbe espansa verso est. Questa versione russa dei fatti è stata recentemente confermata da nuovi documenti d’archivio britannici pubblicati da “Der Spiegel”. Come noto, l’impegno fu rispettato per meno di dieci anni: dopo di che la NATO si espanse verso oriente fino a raggiungere, in corrispondenza del Baltico, i confini della Russia.

Qui sta il nocciolo della questione. Mosca non vuole che la NATO inglobi l’Ucraina, né ora né mai. Putin ha sostenuto che già oggi esistano tutte le necessarie infrastrutture per un rapido incardinamento del vicino nella struttura militare della NATO. La sua richiesta è palese e pubblica: garanzie formali che tale ingresso nella NATO non avverrà.

Bisogna infatti rammentare che, se questo capitolo della crisi è stato indubbiamente provocato dalle mosse di Mosca, la più ampia questione ucraina deve parecchio a quelle precedentemente compiute da Paesi occidentali. L’Ucraina indipendente post-sovietica ha vissuto a lungo come uno Stato cuscinetto tra la Russia e la NATO: una condizione che rassicurava il Cremlino e non creava a noi grossi grattacapi. Le cose mutarono nel 2005 con la “Rivoluzione Arancione”, che portò alla ripetizione delle elezioni e al trionfo di politici anti-russi decisi a portare il Paese nell’UE e nella NATO. Una rivolta di popolo contro la corruzione endemica, certo, ma agli occhi dei Russi (e non a torto) anche una manovra di Washington per estendere la sua sfera d’influenza. Le cose per i filo-occidentali andarono male e, dopo alcuni anni, le elezioni furono vinte dai filo-russi. A cavallo tra 2013 e 2014 una nuova rivolta, più violenta della prima, quella di “Euromaidan”, portò alla cacciata del governo e all’instaurazione d’un nuovo regime a Kiev, né più né meno democratico del precedente ma decisamente più anti-russo. Fu quest’ultimo colpo che spinse Mosca alle note azioni in Crimea e nel Donbass. Non si può ignorare che vennero in risposta a una spinta, promossa da Paesi della NATO, per portare l’Ucraina verso di noi e far venir meno il ruolo di cuscinetto che aveva fino a quel momento avuto. A onor del vero quel ruolo di cuscinetto già vacillava perché il Presidente Janukovič aveva ventilato l’adesione all’Unione Economica Eurasiatica: ma in tutti gli anni precedenti l’Ucraina aveva perseguito l’adesione all’Unione Europea senza che questo ne spostasse il baricentro agli occhi di Mosca.

Le scelte da compiere

Ora tocca a noi decidere cosa fare. Lo dobbiamo fare avendo presente che il diritto internazionale conta poco, in questa crisi, e che chi vuol individuare “buoni” e “cattivi” pecca di semplicismo, ingenuità o malafede. Ci sono solo interessi e scelte di volontà. Se la Russia aggredisse la Polonia, non ci sarebbero dubbi: l’alleanza atlantica ci impegnerebbe a combattere al fianco di Varsavia. L’Ucraina, però, non è membro della NATO e ciò apre a un ampio ventaglio di scelte. Bene sarà condividerle, concordarle e coordinarle in sede di alleanza atlantica, come è ovvio, ma ciò non implica che l’Italia debba subire le determinazioni altrui e accodarsi supinamente.

L’Italia deve sviluppare una posizione propria e può farlo cominciando a rispondere ad alcune domande. Come i seguenti scenari incrementano o diminuiscono la sicurezza dell’Italia: l’Ucraina nella NATO, l’Ucraina “finlandizzata”, l’Ucraina nella sfera d’influenza russa, l’Ucraina divisa in due. Se sia accettabile che Crimea e parte del Donbass siano annessi alla Russia. Se si desidera recuperare un giorno la Russia alla sfera occidentale, ovvero combatterla come un nemico da debellare fino alle estreme conseguenze (inclusa quella di consegnarla alla prevedibile all’alleanza con la Cina comunista).

Una volta determinati gli interessi nazionali italiani, sarà necessario confrontarli con quelli degli alleati e delle parti direttamente in causa. Sarebbe un errore partecipare a questa crisi senza avere una meta: poiché nessun vento è favorevole a chi non sappia verso quale porto è diretto.

Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.