di Nathan Greppi

Nel suo romanzo del 1939 Furore, lo scrittore americano John Steinbeck raccontava di come gli Stati Uniti, durante la Grande Depressione, dovessero affrontare problemi molto simili a quelli che sono emersi con la globalizzazione negli ultimi decenni. L’introduzione dei trattori nell’agricoltura spaventava quei contadini che erano abituati ad un legame con la terra non mediato dalle macchine e, quando un terreno veniva confiscato dalle banche, non si capiva a chi fare reclamo; per un campagnolo del Midwest era impossibile confrontarsi con una banca la cui sede centrale era dall’altra parte del Paese.

Il fatto è che, mentre ai tempi di Steinbeck il Presidente Roosevelt reagì con un forte intervento statale a favore dei ceti più poveri tramite il New Deal, gli ultimi presidenti americani hanno fatto poco o nulla per ridurre le diseguaglianze e aiutare chi non riesce a stare al passo con i mutamenti tecnologici e sociali, innescati prima dalla delocalizzazione delle fabbriche e poi dall’avvento dei Big Tech. Un altro problema è che se, fino agli anni ’50 – ’60, la crescente meccanizzazione dei processi di produzione si è accompagnata nel lungo termine alla creazione di nuovi e più remunerativi posti di lavoro, dagli anni ’80 la produttività americana ha continuato a calare. Il risultato è che, a fronte di crescenti investimenti nella robotica e nell’intelligenza artificiale, i lavoratori meno istruiti si sono sempre più impoveriti.

Il rapporto dell’economista Acemoglu

Come ha spiegato una recente analisi del “Financial Times“, dopo che negli anni ’90 Bill Clinton ha favorito il libero scambio senza regole e in seguito Obama ha elogiato acriticamente l’operato dei colossi della Silicon Valley, oggi tra i politici a Washington sta gradualmente crescendo la consapevolezza della necessità di un cambio di prospettiva. In particolare, nel novembre 2021 l’economista turco-americano Daron Acemoglu ha presentato di fronte ad una commissione della Camera dei Rappresentanti i risultati delle sue ricerche su come sono cambiati gli stipendi in America e sugli effetti dell’automazione.

Stando ai dati, tutte le fasce di lavoratori di età compresa tra i 18 e i 64 anni, a prescindere dal livello d’istruzione, hanno visto dal 1963 crescere le loro entrate fino ai primi anni ’70, per poi rimanere vagamente stabili fino ai primi ’80. Da quel momento, coloro che avevano completato l’università videro i loro guadagni crescere esponenzialmente (o in misura minore se avevano solo la laurea triennale). Al contrario, coloro privi di laurea si impoverirono fino a metà degli anni ’90, risalirono lentamente nei primi 2000 e di recente, dopo il crollo per la crisi del 2008, hanno ricominciato lentamente a risalire. Tuttavia, anche nella risalita si è creato un enorme divario tra ricchi e poveri, in particolare sulla base del tasso d’istruzione.

Secondo Acemoglu, tra il 50% e il 70% delle disparità economiche createsi fra il 1980 e il 2016 è riconducibile all’aver affidato a macchine e algoritmi compiti che prima venivano svolti da uomini in carne ed ossa. Secondo lui, “i Big Tech hanno un approccio particolare agli affari e la tecnologia, incentrata sull’uso degli algoritmi per rimpiazzare gli esseri umani. Non è una coincidenza che le compagnie come Google impiegano meno di un decimo del numero di lavoratori che grandi aziende come la General Motors impiegavano in passato”.

Un altro problema messo in evidenza dalla sua testimonianza sta nel divario delle tasse pagate. Tra il 1981 e il 2018 la percentuale di tasse che si dovevano pagare per la manodopera è rimasta pressoché immutata, mentre quella per l’utilizzo di software e altri marchingegni è cresciuta fino al 1999 per poi scendere progressivamente. Ciò rischia di incentivare le aziende a sostituire i lavoratori umani con le macchine, anche per ottenere benefici fiscali.

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Le reazioni della politica

Non è solo in parlamento che si stanno manifestando preoccupazioni. A gennaio, durante un incontro virtuale organizzato dal World Economic Forum, il Segretario del Tesoro Janet Yellen ha affermato che, se da un lato l’aumento del lavoro da remoto avvenuto con la pandemia dovrebbe aumentare la produttività negli Stati Uniti del 2,7%, dall’altro questo aumento favorirà soprattutto i lavoratori che già guadagnavano di più rispetto alla media.

Già alle elezioni presidenziali del 2020 il candidato alle primarie democratiche Andrew Yang aveva puntato più volte il dito contro l’automazione che, secondo lui, stava distruggendo milioni di posti di lavoro negli USA. Il suo programma prevedeva di tassare maggiormente le aziende che avrebbero beneficiato dall’automazione, per poi usare i soldi ricavati per garantire un reddito di base a tutti i cittadini americani. Per portare avanti questa convinzione, nell’ottobre 2021 Yang ha lasciato il Partito Democratico per fondare il Forward Party, che ha l’obiettivo di attuare cambiamenti radicali in ambito economico e nelle politiche sull’innovazione.

Le proposte della destra

Sfortunatamente, finora la Destra americana è stata più restia ad affrontare l’argomento, e questo nonostante, stando ad una ricerca del 2019 dell’Istituto Brookings, dei 50 distretti dove c’è maggiore rischio di perdere posti di lavoro a causa dell’automazione ben 46 siano repubblicani. Nello stesso anno Tim Chapman, allora direttore esecutivo dell’organizzazione conservatrice Heritage Action, ha scritto un editoriale sul quotidiano “USA Today” per chiedere ai repubblicani di trovare una soluzione al problema, anche per non lasciare che sia solo la Sinistra ad avere la parola sull’argomento.

Nell’articolo l’autore spiegava che, stando a un sondaggio effettuato dalla sua organizzazione, l’82% degli americani temeva che molti posti di lavoro sarebbero scomparsi nei successivi 10 anni e il 90% chiedeva che la politica mettesse maggiore enfasi sui programmi di formazione per agevolare l’inserimento nel mondo del lavoro. Data la natura tradizionalmente antistatalista dei conservatori americani, Chapman non riteneva una buona opzione i programmi pubblici e proponeva invece varie agevolazioni fiscali e burocratiche per i corsi di formazione organizzati da aziende o altri enti privati. Egli citava come esempio la decisione di Mike Lee, un senatore repubblicano dello Utah, di proporre un disegno di legge noto come Higher Education Reform and Opportunity (HERO) Act, che mirava a ridurre i costi dell’istruzione superiore e offrire maggiori opportunità di sviluppare le competenze richieste dal mercato del lavoro.

Il consiglio di Chapman andrebbe seguito anche dalla Destra italiana, poiché presto o tardi il problema dell’automazione e del suo impatto sull’occupazione diventerà sentito anche da noi.

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Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).