di Fabio Bozzo
La fuga dalla guerra
Dal 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica, l’Occidente si è progressivamente autoconvinto che la guerra classica, fatta di grandi unità in uniforme che si battono contro le loro corrispettive avversarie, fosse cosa del passato. Del resto anche la Guerra Fredda, a causa dell’equilibrio nucleare, aveva abituato l’opinione pubblica ad una miriade di conflitti “limitati” in giro per il mondo, spesso devastanti ma che i due Blocchi evitarono sempre si allargassero fino a coinvolgere i rispettivi interessi non negoziabili. Tuttavia, malgrado l’equilibrio nucleare ed i vari impegni bellici nel Terzo Mondo o nei Paesi in via di sviluppo, le superpotenze dell’epoca continuarono a fronteggiarsi in Europa alla testa di due formidabili schieramenti militari convenzionali. Se è vero che la Guerra Fredda non divenne mai “calda” grazie alla mutua distruzione atomica assicurata, è altrettanto vero che tutti i piani di guerra di entrambe le parti prevedevano principalmente un gigantesco conflitto convenzionale, da combattere con immense armate paragonabili a quelle dei due conflitti mondiali.
La fine della contrapposizione NATO-Patto di Varsavia diede il via in Occidente (specialmente in Europa) a un periodo di ingenuità raramente eguagliato nella storia. I Paesi del vecchio blocco comunista erano economicamente a pezzi e avviati alla democrazia e all’interconnessione con le economie libere. Alcuni di loro, addirittura, iniziarono subito il percorso che avrebbe portato ad un enorme allargamento della NATO e dell’Unione Europea. Pertanto non era più necessario mantenere costose forze armate basate anche sul numero: senza gravi minacce esterne e con l’ombrello americano sempre presente, l’onda lunga del boom economico degli anni ’80 andava sfruttata fino in fondo, rendendo le spese militari un inutile impiccio.
Missioni “di pace” o “di polizia internazionale”
Questo misto di sostanziale benessere e sicurezza ha convinto l’Occidente, almeno fino all’11 settembre 2001, che la guerra fosse un qualcosa di superato, che ormai avveniva solo in luoghi arretrati o dalla storia particolarmente ingarbugliata. I vari conflitti africani, il terrorismo mai sopito interno al mondo islamico ed esportato dallo stesso, persino le guerre nell’ex Jugoslavia… tutto ciò per l’opinione pubblica (giustificata) e per troppi leader (non giustificati) era qualcosa di lontano ed esotico. Tali conflitti potevano essere affrontati o con il peso diplomatico ed economico dell’Occidente o, in extremis, con l’invio di spedizioni “di pace” limitate nel tempo e nel numero, ma dotate di enorme potenza di fuoco e alta tecnologia. Per questo genere di operazioni erano sufficienti piccoli eserciti altamente professionali. Contemporaneamente l’intervento occidentale contro la Serbia a favore dei kossovari albanesi (vero vaso di Pandora giuridico aperto dalla Presidenza Clinton) è stato ad oggi l’unico conflitto della storia vinto unicamente con la forza aerea.
Nemmeno l’11 settembre ha cambiato troppo questa visione. Con l’eccezione degli Stati Uniti, che per ovvie ragioni geopolitiche devono mantenere un esercite anche numeroso e non solo professionale, l’Occidente ha considerato le operazioni della Guerra al Terrorismo come una sorta di enormi interventi di polizia, quasi una riedizione delle campagne coloniali miranti a ristabilire l’ordine in posti degni delle avventure di Salgari o Corto Maltese.
Il crudo realismo russo
Nel frattempo la Russia non è stata coinvolta da questa ubriacatura collettiva di belle speranze. Malgrado gli alti e bassi della ricostruzione economica a seguito del disastro comunista, la dottrina militare russa non si è mai eccessivamente discostata da quella sovietica, la quale a sua volta era essenzialmente quella zarista. Certo anche i russi hanno attuato feroci tagli al budget ed al personale militari, cercando al contempo di migliorare la qualità delle forze rimaste in servizio. Ma questo non ha intaccato il pensiero fondamentale del loro esercito, ossia che le guerre si vincono con la concentrazione della massa e della potenza di fuoco.
“Aiutati” anche da una tecnologia tradizionalmente meno sofisticata di quella dei Paesi NATO, i russi hanno continuato a fabbricare e tenere in servizio un enorme numero di mezzi leggermente più arretrati di quelli occidentali, ma che possono ampiamente compensare la loro relativa arretratezza con la quantità e con la disponibilità di subire perdite da parte della società russa. E così, mentre per trent’anni l’Occidente si è scervellato per analizzare fenomeni come la “guerra asimmetrica”, la “guerra a bassa intensità”, “l’intervento umanitario” o le “missioni di pace”, i russi hanno continuato a prepararsi per la normale, banalissima e fondamentale guerra.
La guerra ritorna nella storia europea
Il risultato è sotto gli occhi di tutti in Ucraina. Mosca sta conducendo l’invasione armata di un Paese più grande della Francia con circa 200.000 soldati e centinaia di aerei, cannoni e veicoli corazzati. Un’operazione non troppo diversa da quelle condotte dai grandi eserciti meccanizzati della Seconda Guerra Mondiale. Le truppe di Kiev, inferiori in tutto, di fronte a questa guerra classica sono state prese di sorpresa, malgrado una resistenza che prevedibilmente andrà irrigidendosi man mano che il fronte avanza verso ovest.
E la NATO? Pur possedendo una potenza militare ed economica incomparabilmente superiore a quella russa, i Paesi dell’Alleanza Atlantica si sono limitati a condanne verbali e a preparare sanzioni economiche. Queste ultime faranno molto male alla Russia e non è da escludere a priori che potrebbero provocare la caduta di Putin (dagli Zar ai Segretari Generali sovietici non sarebbe certo il primo signore del Cremlino ad essere “pensionato”).
Nel frattempo le sanzioni non possono fermare le operazioni militari sul campo, con le quali Mosca palesemente intende mettere il mondo di fronte al fatto compiuto. L’unica cosa che possa contrastare una guerra priva di aggettivi postmoderni è l’invio di un esercito in grado di respingere o, quantomeno, bloccare la forza armata avversaria mettendo “gli scarponi nel fango”. Peccato che questa sia anche l’unica opzione che sia il Presidente Biden sia il Segretario Generale della NATO Stoltenberg hanno escluso a priori.
La guerra senza aggettivi, fatta di grandi eserciti che puntano alla vittoria militare, è tornata in Europa. Sia l’Occidente sia i russi lo hanno capito, ma per ora solo i secondi sono disposti ad affrontarla (e quindi a vincerla).
Laureato in Storia con indirizzo moderno e contemporaneo presso l'Università di Genova. Saggista, è autore di Ucraina in fiamme. Le radici di una crisi annunciata (2016), Dal Regno Unito alla Brexit (2017), Scosse d'assestamento. "Piccoli" conflitti dopo la Grande Guerra (2020) e Da Pontida a Roma. Storia della Lega (2020, con prefazione di Matteo Salvini).
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