Cosa accade in Ucraina e cosa ci attende nel futuro?
Le risposte a domande complesse spesso devono essere cercate nei classici. Chi, spinto dagli eventi dei giorni scorsi, iniziasse a sfogliare il Vom Kriege di Clausewitz, troverebbe al capitolo I del libro primo una tipologia della guerra. La definizione iniziale del fenomeno non è quella che tutti conoscono, o hanno orecchiato: continuazione della politica con altri mezzi. Alla prima pagina del testo la guerra è equiparata a un duello su vasta scala o, meglio, a un insieme di duelli. È lo scontro di due lottatori: ognuno con l’uso della forza vuole “abbattere” il rivale, impedirgli ogni resistenza per poi imporgli la propria volontà. Il mezzo, la violenza, serve dunque il fine politico. Tra mezzo e fine esiste tuttavia un rapporto interattivo: l’uno influenza l’altro e viceversa.
L’interazione della violenza
Interattivo è anche il rapporto violento tra avversari; per comprenderlo basti pensare alla Grande Guerra. Nell’estate del 1914 gli stati maggiori dei Paesi già coinvolti ritenevano che entro Natale le ostilità si sarebbero concluse. Così non fu. Lo sforzo profuso sui campi di battaglia non produsse l’esito sperato. A causa dell’evoluzione tecnologica – aumento della potenza di fuoco – la difensiva era strutturalmente superiore all’offensiva. Ne seguì un progressivo aumento dell’impegno militare e una scalata del livello della violenza, che spinse verso l’alto anche gli obbiettivi politici dei belligeranti. Il crescente prezzo di sangue pagato imponeva adeguate “compensazioni”.
Seconda interazione è quella tra i “duellanti”, gli avversari. L’attività bellica non è volta a produrre effetti su una materia insensibile, un soggetto inerme, bensì su una comunità sociale, un corpo politico che resiste e reagisce. All’avvio delle ostilità il grado d’intensità della violenza del conflitto armato è calcolato in riferimento all’entità del fine che l’attaccante intende raggiungere. Maggiore l’importanza dell’obbiettivo perseguito più intenso lo sforzo. Lo scopo ultimo della guerra, politico, determina o dovrebbe determinare gli obbiettivi nella guerra, militari, ritenuti necessari e sufficienti per raggiungere quel fine. Da qui la seconda e più nota definizione della guerra: “Continuazione del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi”. Mezzi che sono “altri” rispetto a quelli non violenti: l’azione politico-diplomatica, le pressioni economiche e finanziarie, la manipolazione delle informazioni e via discorrendo.
Mezzi, obiettivi e volontà
L’obbiettivo politico dell’uno può tuttavia essere di ben diverso peso rispetto a quello dell’altro. È perciò la relazione dialettica che si stabilisce tra fini contrapposti che determina la violenza reale della guerra, i suoi effetti. Al rapporto delle forze, che vale a livello del confronto dei mezzi messi in campo dagli avversari, occorre aggiungere la dialettica delle volontà, al livello dei fini che essi perseguono. In una data guerra il rapporto delle forze può essere straordinariamente favorevole per l’uno, cosa che sulla carta dovrebbe consentirgli di combattere e vincere la guerra rapidamente, limitandone l’intensità. Nel rapporto tra i fini possono essere tuttavia quelli dell’altro ad essere straordinariamente più rilevanti degli obbiettivi del primo. In tal caso quest’ultimo si troverà in condizione di netto svantaggio nel confronto delle volontà: l’avversario combatterà con assai maggiore determinazione, sopportando perdite e costi straordinariamente alti pur di conseguire il proprio scopo. Questo spiega l’esito di guerre come l’Algeria o il Vietnam.
In definitiva, la guerra è sempre sequenza dinamica di influenze e azioni reciproche: mezzi-fini, attacco-difesa, azione e reazione. Dalla costatazione di queste interazioni discende la distinzione tra guerra sulla carta e guerre reali. Quando, tradotta nella pratica bellica, ogni pianificazione strategica si rivela infatti più o meno inadeguata. Interviene quella che Clausewitz definisce “frizione” o attrito: l’insieme delle resistenze, dell’avversario o legate alle condizioni di diversa natura dell’ambiente dell’interazione o agli stessi limiti di chi agisce. L’attrito è dunque ciò che separa le guerre sulla carta dalle guerre reali.
Applicare la teoria alla pratica (in Ucraina)
Cosa implica tutto questo in riferimento alla guerra in Ucraina?
Putin ha adottato l’iniziativa per conseguire tre obbiettivi:
- Consolidare il controllo russo sull’intero Donbass;
- Creare eventualmente una contiguità territoriale tra province indipendentiste ucraine e penisola di Crimea, annessa nel 2014;
- Promuovere un “regime change” favorevole alla Russia e allontanare così Kiev dall’orbita occidentale.
I mezzi militari messi al servizio del raggiungimento di questi obbiettivi, in particolare il primo e l’ultimo, fino a questo momento non sono apparsi adeguati al fine. La resistenza all’azione russa (l’attrito di Clausewitz) si è rivelata superiore al previsto. La “narrazione” che Putin ha fatto precedere all’aggressione è risultata infondata: gli Ucraini non accolgono le truppe dei “fratelli”, le combattono, Zelensky non fugge. Le forze russe incontrano difficoltà operative e logistiche, la NATO si mostra ragionevolmente coesa, le sanzioni economico-finanziarie pesano e l’UE reagisce, fino al punto di assicurare forniture militari a Kiev.
Due sono le conseguenze, apparentemente di segno opposto ma a ben vedere collegate e contemporanee, perché guerra è continuazione del processo politico cui si frammischiano altri mezzi, violenti:
- aumento della pressione militare per vincere la resistenza;
- avvio a Gomel del negoziato tra le parti.
Putin è in difficoltà. Lo testimonia l’ordine di allerta alle forze di deterrenza nucleare emanato a soli tre giorni dall’inizio delle ostilità. È una mossa negoziale: ha posato una bomba a mano sul tavolo della trattativa. Ha alzato la posta in gioco per intimorire gli avversari e al contempo rafforzare la propria posizione negoziale. Da lì dove è giunto non può più recedere, pena la perdita di reputazione e non solo quella, fuori e dentro i confini nazionali.
I rischi adesso sono tre:
- un incentivo a procedere lungo la strada imboccata il 24 febbraio, ove Putin ancora riuscisse a concludere rapidamente e con successo le operazioni belliche;
- la prematura tentazione di approfittare delle sue difficoltà per eliminarlo dalla scena internazionale, scatenando una reazione preventiva violenta;
- infine, la scalata a un più alto livello del confronto politico-militare, se Putin, messo all’angolo, decidesse che non gli resta altra strada per evitare di perdere la partita.
Sono gli ultimi due rischi ad apparire più immediatamente preoccupanti. Sta di fatto che, d’ora in poi, da parte occidentale occorrerà sapersi muovere nella difficile interazione conflittuale mantenendo sangue freddo e dando prova di grande prudenza e intelligenza.
Consigliere scientifico del Centro Studi Machiavelli.
Professore associato di Relazioni internazionali presso l'Università di Firenze, dove è coordinatore del Master in Leadership e analisi strategica, direttore del corso di perfezionamento in Intelligence e sicurezza nazionale, direttore del Centro interdipartimentale di Studi Strategici, Internazionali e Imprenditoriali (CSSII) e presidente del Corso di laurea in Relazioni internazionali e studi europei.
Insegna o ha tenuto corsi anche presso la Scuola di Guerra Aerea, la Scuola Ufficiali dei Carabinieri, la Scuola di Perfezionamento delle Forze di Polizia, l'Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze.
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