di Daniele Scalea

Rimettere la guerra al suo posto

Nella sua fuga dalla complessità, la narrazione che circonda il conflitto russo-ucraino non può che ridurre tutto all’immediatezza e al facile giudizio morale sull’atto, espunto da qualsiasi contesto, dell’attacco militare ai danni dell’Ucraina. La decisione di Putin galleggia così in un vuoto spazio-temporale, dove la storia e la geografia perdono profondità e si appiattiscono sulla retorica dell’oggi: la figura di Hitler si sovrappone a quella di Putin; l’aggredito è l’Ucraina ma è anche l’Italia, l’Europa, la democrazia o il mondo, perché se Putin attraverserà il Dnepr allora non v’è dubbio che i cosacchi abbevereranno i cavalli nelle fontane di San Pietro. È del resto naturale sospendere nel vuoto una vicenda, se un vuoto (cognitivo e conoscitivo) è pure nella testa di chi la racconta.

Questa visione semplicistica, parossistica e misticheggiante non può, dunque, che rifiutare la contestualizzazione storica (così come quella strategica). Ogni deviazione dalla linea è denunciata come “putinismo” (forma mentis comunista).

A costo però di apparire “deviazionisti” e “non ortodossi”, ci concederemo comunque una breve digressione storica. Necessario è infatti, per chi ancora abbia l’insolenza di voler capire, il riconoscere nella guerra russo-ucraina anche (se non soprattutto) uno dei tanti conflitti etnici che hanno insanguinato i territori ex blocco comunista a seguito del crollo dell’URSS e a causa della sua eredità di confini “irrisolti”.

Uno sguardo alla carta

Carta fisica dell’Europa Orientale (fonte: Wikipedia) – Clicca per ingrandire

Ogni analisi storica e geopolitica dovrebbe partire dall’osservazione della carta geografica. Nel caso dell’Ucraina, il colpo d’occhio mostra come il Paese sia inserito nella più ampia Pianura Sarmatica, che arriva fino agli Urali. Ciò significa che, se a sud ed ovest il territorio è più o meno delimitato da Mar Nero e Carpazi, a nord e ad est non vi sono confini naturali. Infatti, nel corso della storia, le linee di demarcazione politica sono state estremamente mobili lungo quelle direttrici.

I fiumi hanno in parte supplito alla mancanza di rilievi a oriente dei Carpazi. Ma se il Dnester non ha fatto altro che rafforzare questi ultimi come delimitazione, e il Bug Meridionale ha rappresentato un grande ostacolo solo nell’antichità, è stato il Dnepr a fungere spesso da linea di demarcazione politica.

Un’altra caratteristica geografica importante è che il territorio ucraino è percorso dal confine tra due biomi: la foresta (nel centro-ovest) e la steppa (nel sud-est). Sebbene tale demarcazione sia oggi meno influente, lo è stata moltissimo nei secoli passati. La steppa eurasiatica è un’ampia prateria che corre dalla Mongolia ai Carpazi: una distesa semi-arida di erba ma priva di alberi, storicamente inadatta all’agricoltura e perciò abitata da popoli di pastori, necessariamente nomadi. Popoli di gente che nasceva e cresceva a cavallo, in cui ogni uomo era anche guerriero, capace nella difficile arte dello scoccare frecce muovendosi sul destriero. Fino a mezzo secolo fa risultavano invincibili sul loro terreno naturale – la steppa per l’appunto – sebbene di rado riuscivano a stabilire domini duraturi al di fuori di esso.

Terra di confine

Per molti secoli, in Ucraina risiedettero tre confini mobili: quello degli Slavi occidentali, quello degli Slavi orientali e quello dei popoli nomadi “turanici”. Così, con riferimento a differenti aree o zone di quel territorio, sovente si usava il termine Oukraina – Okraina – Ukraina, che secondo l’etimologia più accreditata significa proprio “terra di confine”. L’uso tanto frequente finì per rendere l’intera regione la “terra di confine” per antonomasia; nell’Ottocento, mentre si affermava l’auto-coscienza nazionale di quella che ancora i più chiamavano Malaja Rus’ (“Russia Minore”), “Ucraina” e “Ucraini” divennero i nomi d’una nuova soggettualità storica.

Prima d’allora, la distinzione tra le Russie (Grande, Bianca e Minore) fu meno chiara. La Rus’ (Rusia in latino), che sorse in Europa Orientale nel IX secolo, aveva il proprio centro politico a Kiev ma includeva vari principati: dalla Galizia e la Volinia a ovest a Novgorod a nord, da Minsk a Mosca. Fu l’arrivo dei Mongoli a provocare il declino di Kiev (saccheggiata nel 1240), la progressiva ascesa di Mosca e l’inclusione di Galizia e Volonia – dopo un secolo circa d’indipendenza – nella compagine statuale polacco-lituana. Per secoli Mosca e Varsavia si sarebbero contesi la grande pianura est-europea, facendo combattere – per loro tramite – anche la Cristianità cattolica e quella ortodossa.

Nel 1654 i Cosacchi (contadini sfuggiti alla servitù per dare vita a uno Stato libero e militare) del Dnepr riconobbero, a Perejaslav, l’autorità dello Zar moscovita per ottenere aiuto contro i Polacchi. Nel 1686 la Pace Eterna (infelice scelta di nome) fissò il confine, grosso modo, al Dnepr. Cent’anni più tardi, tra il 1772 e il 1795, la Polonia fu spartita tra Austria, Germania e Russia, consegnando a quest’ultima tutta l’odierna Ucraina con la significativa eccezione della Galizia e della Volonia, che furono assegnate a Vienna. Negli stessi decenni, la steppa ucraina venne sottratta agli Ottomani manu militari dall’Impero russo: fu oggetto di un’intensa opera di ripopolamento e denominata Novorossija, “Nuova Russia”.

Nascita di una nazione

È importante notare che, fino ad allora, “Ucraina” era rimasta un’espressione geografica. Amministrativamente era, al pari del resto dei possedimenti zaristi, suddivisa in vari governatorati. La lingua ucraina esisteva già da secoli, ma era reputata un dialetto dei popolani e non poteva annoverare una vasta tradizione letteraria. Fu a cavallo tra ‘700 e ‘800 che si sviluppò l’ucraino moderno; e fu nel XIX secolo che, mentre Mosca cercava d’arginarne la diffusione con misure restrittive, fu riscoperto anche dall’élite locale che, sotto l’influenza convergente del romanticismo e del liberalismo (affascinato dal relativo egualitarismo cosacco), cominciò a pensare l’Ucraina come a una nazione a sé – sebbene spesso collegata alla Russia da sentimenti panslavi o russofili.

Quando nel 1917 scoppiò la rivoluzione nell’Impero russo e lo Zar fu deposto, in Ucraina si formò un Consiglio (Rada) Centrale, autonomo ma non indipendente, con autorità sulla parte centro-occidentale dell’attuale Stato ucraina. Dopo la rivoluzione d’ottobre, che consegnò il potere ai bolscevichi, un’autoproclamata Repubblica d’Ucraina estese la propria giurisdizione anche sulla parte sud-orientale, con la significativa eccezione della Crimea. Cominciarono allora anni tribolati, caratterizzati dalla Pace di Brest-Litovsk e dalla guerra civile russa: l’Ucraina passò di mano, dagli indipendentisti menscevichi alla Germania, dalla Russia alla Polonia, dai Bianchi ai “Verdi”. Infine, nel 1922 la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina fu integrata nell’URSS, con confini corrispondenti grosso modo agli attuali. Furono integrati dall’espansione sovietica in occasione della Seconda Guerra Mondiale e, nel 1954, dall’inglobamento della Crimea come dono nel trecentenario del Trattato di Perejaslav.

La cessione della Crimea fu decisa da Nikita Chruščëv, segretario del PCUS cresciuto in Ucraina e per vari anni alla guida del Partito Comunista Ucraino. Perché se l’Ucraina ebbe molto a soffrire dal regime comunista (si pensi al terribile Holodomor, perpetrato nell’ambito della dekulakizzazione degli anni ’30), ne espresse anche protagonisti di primo piano. Oltre a Chruščëv, successore di Stalin, pure il successivo segretario del PCUS, che rimase al potere per un ventennio, era ucraino: Leonid Brežnev. Etnicamente ucraini da parte di un genitore erano Konstantin Černenko e Michail Gorbačëv, ultimi padroni dell’URSS prima della disgregazione. Anche al di fuori del massimo livello dei governanti, si trovano parecchi ucraini che hanno segnato la storia sovietica, nel bene o nel male: il fisico Abram Ioffe, l’ingegnere spaziale Sergej Korolev, l’artista Kazimir Malevič, il biologo Trofim Lysenko, il chimico Vladimir Vernadskij e molti altri ancora.

I confini della discordia

Carta etno-linguistica dell’Ucraina moderna (fonte: Wikipedia). Clicca per ingrandire

Quando l’Ucraina, al crollo dell’URSS, è diventata indipendente, lo ha fatto coi confini giuridici ereditati dall’Unione Sovietica e con quelli interni, invisibili ma “pesanti”, ereditati dalla sua lunga storia. Così, se nell’ovest del Paese, eccezion fatta per le province con cospicue minoranze ungheresi o moldave, l’ucraino è prima lingua per quasi tutti gli abitanti (i dati sono quelli del censimento 2001, unico disponibile, realizzato un decennio dopo l’indipendenza), spostandosi verso sud ed est le percentuali calano, anche sotto il 50% nel Donbass, nella provincia di Odessa e in Crimea (dove addirittura solo il 10% è di ucraini madrelingua). Laddove calano gli ucrainofoni aumentano proporzionalmente i russofoni (anche se non andrebbe mai trascurato il fenomeno del suržik, una lingua intermedia e informale).

Questa linea di faglia, che ripercorre quelle storiche e geografiche anzidette, si è tramutata in politica. Basta ripercorrere le maggiori elezioni di questo trentennio d’indipendenza per riscontrare uno schema piuttosto ripetitivo: col centro-ovest che vota per i partiti nazionalisti (o comunque europeisti) e il sud-est per quelli russofili (o a tutela delle minoranze etno-linguistiche).

Si obietterà che in molti altri Paesi esistono simili pattern elettorali, senza che ciò pregiudichi la stabilità democratica. Vero: ma in genere in quegli altri Paesi si tratta di divisioni contingenti, o legate a fenomeni il cui respiro copre una o due generazioni al massimo. Nel caso dell’Ucraina, invece, molte differenze – politiche, etniche, linguistiche, storiche, geografiche – insistono simultaneamente sulla medesima linea di demarcazione: ognuna è una lama di coltello che incide; sommando tutte le incisioni si forma un solco profondo. Le due rivoluzioni del 2004-05 e del 2013-14, le secessioni del 2014, il lungo conflitto a bassa intensità nel Donbass, l’invasione russa di oggi, ce lo chiariscono definitivamente.

Alla base della presente guerra russo-ucraina non c’è la follia di un uomo solo, ma la recrudescenza di un conflitto etnico le cui radici affondano profondamente nel terreno della storia.

Il ritorno della storia

Confido che il lettore, che mi abbia seguito fin qui, comprenda che questa ricostruzione storica non è stata uno sfoggio di date o nozioni fine a sé stesso. Comprendere la storicità della guerra russo-ucraina deve fungere da monito. Un monito a capire in quali tempi viviamo. Faciloni e creduloni potranno ben relegare tutto alla follia e cattiveria di un solo uomo, Vladimir Putin. Facendolo, però, si comporteranno come quelli che, sulle pendici di un vulcano, non sappiano riconoscere nelle scosse telluriche, nella frattura del suolo o nell’aumento delle fumarole l’imminenza di un’eruzione.

In realtà assistiamo alla storia che bussa alla nostra porta. La storia sta tornando in Europa, ma l’Europa non appare ancora pronta a tornare nella storia. Se non vi riuscirà nel più breve tempo possibile, sarà travolta e diventerà terra di conquista e colonizzazione per popoli più consapevoli e vitali.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

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Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.