di Nathan Greppi

Uno dei nuovi “peccati” imposti nel dibattito pubblico dall’estrema sinistra terzomondista è quello della cosiddetta “appropriazione culturale”: quando cioè dei bianchi sembrano imitare in qualche modo usanze e tradizioni di etnie non europee.

Ciò ha portato, ad esempio, a numerosi attacchi contro il Primo Ministro canadese Justin Trudeau, per delle foto del 2001, in cui si era pitturato il volto ad una festa per sembrare un uomo dalla pelle scura. O, per fare un altro esempio: nel luglio 2020 la squadra di rugby “Washington Redskins” ricevette crescenti pressioni per cambiare nome, in quanto quello che avevano richiamava i pellerossa. A febbraio di quest’anno si sono ribattezzati “Washington Commanders”.

Su quest’ultimo fronte – quello dei nativi americani – di recente sono stati una serie a fumetti della “Marvel” e un videogioco pubblicato dalla “Sony” a venire presi di mira. Nel primo caso, ciò è avvenuto in quanto uno dei personaggi richiama nel nome la figura realmente esistita di Pocahontas, resa celebre anche dall’omonimo film d’animazione “Disney” del 1995.

Il fumetto su Re Conan

I fatti sono i seguenti: nel terzo numero della miniserie “King Conan”, tratta dall’omonimo romanzo di Robert E. Howard e che ha esordito nel dicembre 2021, è comparsa tra i personaggi una provocante principessa dai poteri sovrannaturali di nome Matoaka, che era anche il nome di battesimo di Pocahontas. Nativa americana vissuta a cavallo tra la fine del ‘500 e la prima metà del ‘600, Pocahontas sposò un uomo inglese e si trasferì a Londra, dove divenne molto famosa.

L’accusa rivolta ai due autori, Jason Aaron e Mahmud Asrar, è di aver sessualizzato la figura di Pocahontas, che nei racconti orali degli indiani d’America è uno dei simboli dell’oppressione subita in seguito all’arrivo degli inglesi nel continente. Stando alle leggende, Pocahontas aveva solo 12-13 anni quando fu dapprima presa in sposa e in seguito imprigionata e stuprata dai colonizzatori.

Le reazioni sui social all’apparizione della Principessa Matoaka sono state alquanto violente. “Era una RAGAZZINA VERA… fare questo a lei, a noi, ripetutamente… sono senza parole. Disgustoso. Non merita di riposare in pace? Voi colonizzatori mi fate vomitare”, ha scritto su Twitter Kelly Lynne D’Angelo, sceneggiatrice televisiva appartenente al popolo dei nativi irochesi.

Visto come stava degenerando la situazione, è dovuto intervenire lo stesso Aaron, scusandosi in un comunicato nella propria newsletter personale:

Per King Conan 3 ho preso la sconsiderata decisione di dare a un personaggio il nome di Matoaka, un nome subito associato alla figura nativa americana realmente esistita di Pocahontas. Questo nuovo personaggio è una principessa sovrannaturale vecchia migliaia di anni di un’isola maledetta all’interno di un mondo fantasy che non è mai stato pensato per essere basato su un qualsiasi personaggio storico.

Avrei dovuto riflettere meglio sul reale significato del nome e sulla sua importanza e capire che non era appropriato usarlo. Comprendo l’indignazione espressa da coloro che hanno a cuore l’eredità della vera Matoaka, e per tutto questo e per la sofferenza che ho provocato, mi scuso. Come parte di queste scuse, ho già preso quello che mi è stato pagato per questo albo e l’ho donato al National Indigenous Women’s Resource Center. Il nome e l’aspetto del personaggio saranno modificati per il resto di questa miniserie e in tutte le future edizioni digitali e raccolte.

Il videogioco Horizon Forbidden West

Un caso analogo è accaduto a a metà febbraio, dopo la pubblicazione del videogioco Horizon Forbidden West. Sviluppato da un’azienda olandese affiliata al gruppo Sony e sequel del titolo del 2017 Horizon Zero Dawn, è ambientato in un futuro post-apocalittico dominato da animali robotici, dove molti esseri umani sono regrediti a stadi tribali e primitivi.

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Alcuni critici videoludici hanno accusato gli sviluppatori di essersi ispirati in maniera inappropriata ai costumi tradizionali degli indiani d’America per l’abbigliamento dei personaggi e, in particolare, della protagonista Aloy, “rea” di essere una ragazza bianca che si vestirebbe come un’indigena.

Stacey Henley, direttrice del sito specializzato “The Gamer”, ha scritto che il primo titolo della saga “aveva solo due pecche a mio parere: la storia era debole, e l’intero gioco si intratteneva con cosplay dei nativi americani; Forbidden West avrebbe dovuto superare queste pecche, e invece sprofonda in entrambe”.

A parlare esplicitamente dell’appropriazione culturale come di un “peccato” è “Kotaku“, tra le principali testate di settore, dove si legge che “Horizon Forbidden West non si ripulisce del tutto dai peccati del suo passato”. Nell’articolo si arrivava a definire “bizzarro” il fatto che l’eroina sia una bianca, a fronte di tanti personaggi di colore, e a dire che il finale “puzza di allusioni colonialiste”.

Eppure, nonostante tutte queste speculazioni condite di ideologia antioccidentale, in realtà gli usi e i costumi di Aloy e della sua tribù, i Nora, sembrano avere poco a che fare con i nativi americani. John Gonzalez, responsabile narrativo di Horizon Zero Dawn, nel rispondere alle accuse che già nel 2017 gli venivano rivolte, in un’intervista a “Vice” spiegò che si erano ispirati a tanti popoli diversi: “Non cercavamo l’ispirazione in un gruppo in particolare e abbiamo gettato la rete su un ampio settore, per vedere tante culture e tribù, in tutto il mondo e in ogni epoca. È questo il motivo per cui molte persone dicono che i Nora somigliano ai vichinghi, o per cui molti elementi visuali ricordano i pittogrammi celtici. Perciò, l’ispirazione è venuta da tanti posti diversi”.

Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).