di Nathan Greppi

Un termine che negli ultimi anni circola molto negli ambienti femministi è quello della “mascolinità tossica”: in pratica, avere atteggiamenti virili o mascolini viene associato all’aggressività e all’insensibilità, alle quali viene contrapposto un approccio presumibilmente più empatico per esternare le proprie emozioni.

In quest’epoca, con l’ingresso sempre più spinto nel dibattito pubblico di questioni controverse sulle tematiche legate al genere e la sessualità, è necessario riscoprire cosa vuol dire essere un maschio, oltre i preconcetti ideologici. Ad aver previsto in tempi non sospetti molte derive attuali è l’accademico americano (di tendenza conservatrice) Harvey C. Mansfield, che negli Stati Uniti è una figura autorevole nel campo della filosofia politica. Nel 2006 molti sviluppi attuali, specialmente per quanto riguarda gli eccessi del femminismo, erano già previsti nel suo saggio Virilità, ritradotto in italiano nel 2021 dalla casa editrice Liberilibri.

La virilità è responsabilità verso i più deboli

Già nel primo capitolo, Mansfield mette in chiaro la sua posizione su quello che ritiene il malinteso di fondo nella maggior parte delle discussioni sulla virilità e la mascolinità: chi le attacca in genere lo fa perché convinto che in esse siano insite l’aggressività e la tendenza ad imporsi sui più deboli, e in particolare sulle donne.

L’autore spiega che esistono due tipi di virilità: quella appena descritta è la negativa, parallelamente alla quale ne esiste una positiva, che consiste nell’utilizzare la propria forza d’animo e fisica per difendere sé stessi e coloro che si ama da eventuali soprusi. In altre parole, riconoscere per esempio che gli uomini siano statisticamente più robusti delle donne, non dovrebbe conferire loro dei privilegi, bensì delle responsabilità. In generale, l’archetipo dell’uomo virile in senso positivo è rappresentato dai soldati che vanno in guerra a rischiare la vita per difendere le proprie madri, mogli, figlie e sorelle.

Viene fatto anche un breve excursus storico su come sia mutata, specialmente negli ultimi decenni, la suddivisione dei ruoli tra uomo e donna nella società contemporanea. Viene spiegato come le donne desiderino (giustamente) avere maggiori possibilità di scelta su cosa intendano fare nella propria vita, dando nella maggior parte dei casi la priorità alla carriera lavorativa e mettendo in secondo piano i lavori domestici. Su questo punto, Mansfield sostiene che, se da un lato è più che condivisibile che ognuno voglia avere la possibilità di realizzarsi come meglio crede, dall’altro lato ciò va a intaccare un determinato ordine sociale. Egli crede che servirebbe una riscoperta dei lati positivi della maternità.

Contro la neutralità di genere

In anticipo di oltre un decennio rispetto a quando il tema si è imposto nel dibattito pubblico italiano, Mansfield ha attaccato gli sforzi, profusi da diversi intellettuali, per imporre l’idea che non esistano generi sessuali prestabiliti e che le categorie maschili e femminili, come le intendiamo di norma, siano solo degli stereotipi, frutto di un costrutto sociale del quale occorrerebbe sbarazzarsi. La sua contro-argomentazione di fondo sembra essere che, per ogni persona di indole aggressiva, deve esisterne un’altra dal carattere più premuroso: le due si completano a vicenda.

Partendo da un’analisi del concetto stesso di stereotipo, egli spiega che, se da un lato il modo di comportarsi degli uomini è cambiato radicalmente nel corso della storia, i ruoli che essi rivestono sono diverse sfaccettature di un’unica grande macrocategoria. Inoltre, fa diversi riferimenti al fatto che, nonostante nel corso dei decenni molte ricercatrici femministe abbiano compiuto innumerevoli sforzi per affermare il contrario, anche la scienza conferma l’esistenza di differenze innegabili tra uomini e donne. Ad esempio, nel 1995 Alice H. Eagly, psicologa che lavorava alla Purdue University nell’Indiana, fece marcia indietro dalle sue precedenti posizioni a favore della neutralità di genere, poiché i risultati delle analisi che aveva condotto confermavano l’esistenza di distanze incolmabili tra uomini e donne sotto il profilo psicologico. Più di recente, anche la ricercatrice canadese Debra Soh ha cercato di riaffermare questa realtà, nel suo libro del 2020 The end of gender.

Un sottotema al quale viene dedicato poco più che un accenno, ma che avrebbe meritato molto più spazio, è il contributo dato agli studi di genere dai testi dell’antropologa americana Margaret Mead. Studiosa in particolare delle popolazioni indigene nelle isole dell’Oceano Pacifico, nel suo saggio del 1928 L’adolescenza in Samoa la Mead riportava che le giovani samoane erano libere di vivere la propria identità sessuale senza il condizionamento esterno che invece caratterizzerebbe le civiltà occidentali. Le sue teorie, nel secolo intercorso dalla pubblicazione del libro, sono state idealizzate dai teorici degli studi di genere, che in più occasioni decontestualizzano le tradizioni di popolazioni tribali per trovare conferme all’idea che le differenze sessuali siano solo un costrutto sociale.

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Il testo è ricco di citazioni tratte dalla letteratura classica, per mostrare come sia stata rappresentata la virilità dall’antichità fino ai tempi moderni. Da Omero a William Shakespeare, da Mark Twain ad Ernest Hemingway, ognuno ha rappresentato la concezione del maschio come veniva inteso nella sua epoca. Un difetto del libro sta invece nel fatto che, a parte il caso della Eagly e pochi altri, ci sono pochi riferimenti specifici a fonti scientifiche, che avrebbero potuto rendere più solide le argomentazioni portate avanti; lo stesso Mansfield, all’inizio del libro, afferma testualmente che la sua intenzione è di affrontare il tema da un punto di vista prettamente filosofico. Se da un lato ciò gli permette di spaziare tra gli argomenti su cui è più preparato, dall’altro ciò finisce per concentrare la discussione perlopiù sulle argomentazioni teoriche, a discapito della ricerca di soluzioni pratiche al problema.

I nuovi nichilismi

Un problema di segno opposto, dal quale il filosofo vuole mettere in guardia i lettori, è che l’eccesso di virilità può sfociare nel nichilismo. Per essere più precisi, l’idea che non esista alcuna entità superiore né un’eternità nel senso spirituale del termine può portare ad un eccessivo antropocentrismo, per cui tutto esiste in funzione delle necessità dell’uomo. Mansfield identifica due tipi di nichilismo.

Il primo è il “nichilismo virile”, opposto rispetto a quella che chiama “virilità corretta”. Quella nichilista è fondata su una sorta di darwinismo sociale e sulla teoria del super-uomo di Nietzsche, per cui l’unica legge che conta è quella del più forte. Se la virilità buona serve a combattere i soprusi e a non essere sottomessi, quella cattiva porta alla sopraffazione di alcuni nei confronti di altri. Secondo lui, i regimi totalitari del Novecento sono stati la massima espressione nella storia contemporanea della virilità nichilista.

Il “nichilismo femminile” nasce come diretta conseguenza del precedente: le femministe degli anni ’70 avrebbero cercato di apparire virili e ripudiare la loro femminilità per diventare uguali agli uomini.

Conclusioni

Verso la fine del libro, Mansfield appare alquanto malinconico: se da un lato egli afferma che esisterà sempre la virilità – non importa quanto i fautori della neutralità di genere cerchino di debellarla – dall’altro lato sostiene che proprio la virilità non riesce a trovare un posto nella società contemporanea. E, tuttavia, essa rimane necessaria quando occorre difendersi da minacce violente, quali possono essere eserciti nemici o il terrorismo. Non si tratta di imporre chissà quale ruolo sociale: nessuna persona ragionevole pensa che gli uomini che piangono siano tutti effemminati, o che le donne possano solo essere gli angeli del focolare. Semplicemente, si tratta di ricordare che oltre ai diritti esistono anche i doveri. Tra l’altro, egli cita (con riserve) Niccolò Machiavelli, per il quale gli uomini dovevano essere sia forti sia furbi, sia leoni sia volpi. Non a caso, la volpe e il leone sono i simboli del Centro Studi Machiavelli…

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Giornalista pubblicista, ha scritto per le testate MosaicoCultweek e Il Giornale Off. Laureato in Beni culturali (Università degli Studi di Milano) e laureato magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale (Università di Parma).