Agli albori del pensiero occidentale, quando la filosofia muoveva i suoi primi ma non malfermi passi in terra ellenica, aveva ben chiari quali fossero i suoi due obbiettivi primari. Se la sofia teoretica si proponeva come obbiettivo la ricerca e la scoperta della verità, del “come stanno le cose”, l’aletheia, la sofia pratica, si dava sempre come fine il conseguimento della felicità, l’eudemonia, considerato come senso ultimo della vita umana.
Nell’ormai inaugurato terzo millennio, duemila e cinquecento anni dopo la grande filosofia greca, le prospettive filosofiche non sembrano più le medesime e quelli che parevano due binari paralleli, quelli di sofia pratica e teoretica, sono andati col tempo intersecandosi e separandosi più volte. Che la conquista della verità sia perfettamente equivalente alla conquista della felicità, per esempio, sembra essere la convinzione larvata del pensiero di matrice scientista e positivista mentre l’idea opposta, cioè che l’essere felici equivalga alla conoscenza ed alla pratica della verità, è posizione altrettanto diffusa nella filosofia e nella teologia occidentale. Per Schopenhauer e Nietzsche, ad esempio, verità e felicità non possono coesistere, non si può essere felici conoscendo la verità, tragica, della condizione umana; a salvarci, a donarci qualche breve scampolo di gioia, sarebbero solo le cosiddette “belle parvenze”.
Una felicità per ognuno o una felicità per tutti?
Uno dei grandi princìpi del liberalismo classico, certificato dalla Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, menziona esplicitamente la felicità ed il diritto alla sua ricerca ma sembra già contenere implicitamente la nota citazione kantiana del 1793 secondo la quale “nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona”. In quel “nessuno” kantiano sono celate molte delle contraddizioni irrisolte delle società europee contemporanee che il benessere ha contribuito a nascondere sotto il tappeto ma che, come la pandemia ha dimostrato, sono tutt’altro che scomparse.
Se la libertà è primariamente il diritto di costruirsi una felicità a proprio modo emerge qui una tensione quasi irrisolvibile tra liberalismo e democrazia. Come già notato da Bobbio, il liberalismo, quando si occupa del problema della libertà, lo fa in funzione del singolo individuo mentre la dottrina democratica lo fa in funzione di un individuo calato in una collettività. Benché possa sembrare questione di lana caprina, le implicazioni di tale dicotomia sono dirompenti e sanciscono, tra le altre cose, il profondo spartiacque tra Kant e Rousseau.
I Paesi dell’Europa continentale, tra i quali l’Italia, si trovano su una linea di faglia: profondamente calati, per ragione storiche, nello Zeitgeist liberaldemocratico e individualista di matrice anglosassone incominciato nel 1945, per ragioni altrettanto storiche affondano le loro radici nella cultura democratica figlia dell’Illuminismo e della Rivoluzione del 1789. Il problema della felicità, tuttavia, si pone lungo la strada della politica come un ostacolo ormai inaggirabile. Per quanto sembri totalmente sterile, in una società che ha fatto della brutale aletheia la sua religione ed il suo unico scopo, riflettere sull’eudemonia, la riflessione filosofica a proposito della felicità, è di assoluta attualità e di primaria importanza nella difesa della libertà.
Sappiamo cosa significa essere felici?
Che cosa significa essere felici? Si tratta probabilmente di una delle domande più difficili che si possano rivolgere a un filosofo, ma è probabilmente un interrogativo con il quale dovrebbe misurarsi anche il politico. Può la collettività ignorare il problema della felicità? Può cioè limitarsi, come vorrebbe la teoria politica liberale, ad autogestirsi nella forma di Stato più snello possibile oppure può, come sostengono altre teorie politiche, porsi in maniera proattiva nel progetto di costruire una società perfetta e, si spera, felice?
Se pure è vero che ognuno di noi trova o desidera la felicità in modo differente è però altresì vero che, in un contesto nel quale gli Stati e le collettività umane esistono, occorre dar loro un indirizzo, una stella polare verso la quale tendere. Gli Stati liberaldemocratici europei del Novecento hanno cercato di salvare capra e cavoli ponendo come stella polare non più un determinato tipo di felicità (ad esempio la Gerusalemme Celeste o una qualche forma di utopia socialista) ma solamente il diritto ad acquisirne una, quale che fosse.
Nonostante ciò, lo spostamento della stella polare dalla felicità al diritto alla felicità ha avuto implicazioni notevoli, ancora una volta, sulla libertà dei cittadini. Pensiamo, per esempio, alla pandemia. Se ciò che per me è fondamentale non è più la felicità ma il diritto ad essa, ne consegue che, in maniera forse paradossale, dovrò reprimere tutto ciò che minaccia l’esercizio di tale diritto. Le malattie, per esempio, costituiscono una forte minaccia da questo punto di vista.
Questa situazione, peraltro, sembra configurare, più che un diritto, quasi un dovere alla felicità, quando un libero cittadino, in uno Stato liberale, potrebbe in teoria vantare anche il diritto di rinunciarvi (basti pensare alle numerose visioni religiose, dal buddhismo a molte dottrine induiste, per le quali la condizione di felicità non è altro che ostacolo al conseguimento della vera liberazione, che si trova al di là tanto del dolore quanto della gioia). Che io non possa esercitare il mio diritto ad essere felice se sono morto od ospedalizzato è lapalissiano, ma così facendo si lega pericolosamente il concetto di diritto alla felicità con quello di sicurezza, con gli esiti che abbiamo ben imparato a conoscere nell’ultimo biennio.
Non riflettere filosoficamente sulla felicità significa quindi implicitamente demandare allo Stato tale compito: è lo Stato filosofo, la repubblica platonica che stabilisce ciò che è felicità, ciò che è vita soddisfacente e, nel caso dell’attuale paradigma scientifico-postmoderno, anche ciò che è verità.
Domande inevase
Dato per assodato che non esiste un concetto di felicità che si attagli a tutti gli individui, occorrerebbe però una riflessione seria, da parte della filosofia conservatrice (ma non solo), su quali siano perlomeno i tratti essenziali di una vita felice e soddisfacente. A cosa pensiamo quando immaginiamo la nostra felicità? Vi sono punti in comune? Esiste un’integralità umana che può darci qualche suggerimento, a noi come al politico, a tal proposito? È possibile esistere come comunità etica e politica senza sapere a quale felicità aspiriamo e cioè, in buona sostanza, dove vogliamo andare?
La definizione del concetto di felicità, o perlomeno il suo abbozzo, sembra essere una domanda ancora inevasa dalla grande sofia pratica contemporanea.
Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.
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