di Marco Malaguti

Dai Wandervogel ai Verdi, via Hitler

La Germania, si sa, è da sempre la capitale dell’ecologismo.

Il rapporto tra tedeschi e, più in generale, popoli germanici e mondo naturale è stato a lungo studiato anche in sede accademica. Il medievista italiano Vito Fumagalli ha a lungo contrapposto, nei suoi saggi, l’anima dell’aristocrazia germanica, legata ai boschi e alle riserve di caccia, a quella del clero e della borghesia mercantile della penisola italiana e dei Paesi neolatini, radicata nello spazio regolato e ragionato delle città e della campagna centuriata, che avrebbe poi dato origine all’Illuminismo.

La controffensiva culturale germanica, che prese il nome di Romanticismo, tornò ancora una volta a mettere al centro la foresta come rifugio dell’immaginario primigenio del popolo, abitato da esseri soprannaturali che rappresentavano il fulcro mitico dell’immaginazione germanica. L’esperienza proto-ambientalista dei Wandervogel fu il collante che allacciò l’Ottocento al Novecento, fino ad arrivare al Nazionalsocialismo che, come è noto, fu tra i primi sistemi politici al mondo a promulgare leggi a tutela degli animali e dei boschi.

La Germania di oggi, possiamo dirlo, ha solo nominalmente rinnegato quelle esperienze e il grande successo elettorale di partiti come quello dei Verdi (alla cui fondazione non furono estranei simpatizzanti dello stesso Nazionalsocialismo) lo dimostra. C’è insomma un filo verde, lungo la storia tedesca, che collega esperienze storiche, politiche e sociali apparentemente slegate e lontanissime tra loro, un filo verde che non mancò di insinuarsi anche nella Repubblica Democratica Tedesca, a est della cortina di ferro, con le idee del filosofo marxista Rudolf Bahro che, da un punto di vista marxista, cominciò a importare nella DDR tematiche ambientaliste e decresciste, finendo per diventare, a muro caduto, uno dei principali ideologi e padri nobili del partito dei Verdi.

Un filo verde lungo la storia tedesca

Quando parliamo di ambientalismo in Germania, quindi, non parliamo di una moda passeggera o di una posa per influencer, quanto piuttosto di una sorta di ur-ecologismo che si inabissa e riemerge carsicamente di epoca in epoca, ogni volta in forme differenti. La recente emergenza – vera, falsa, parzialmente vera o parzialmente falsa che sia – si innesta quindi su un retroterra culturale molto profondo e tutt’ora straordinariamente vivo e che, tra le altre cose, non appartiene solo alle sinistre (si pensi al profondo legame tra il mondo silvano e due giganti della letteratura e della filosofia come Ernst Jünger e Martin Heidegger).

L’innesto contemporaneo del climate change, tuttavia, ha insufflato nel complesso rapporto tra tedeschi e natura un nuovo elemento: il terrore. Intendiamoci, il terrore della tecnologia e dello sviluppo ad essa connesso è anch’esso un Leitmotiv tipicamente tedesco: la cupa rassegnazione di Heidegger a proposito del giorno tecnico, l’estetizzante malinconia di Jünger ne Sulle scogliere di marmo, le fosche visioni di Fritz Lang nel suo Metropolis, le pessimiste riflessioni di Walter Benjamin a proposito dell’alienazione delle masse operaie di Berlino, sono tutte espressioni di uno spirito nazionale profondamente irrequieto riguardo al problematico rapporto tra uomo e sviluppo tecnologico.

Un nuovo incubo: l’apocalisse

Il cambiamento climatico aggiunge a questa Angst qualcosa di ancor più insopportabile: la paura dell’estinzione. L’uomo cioè non rischia (soltanto) di  sopravvivere come forma di vita alienata a sé stessa (timore già presente in Benjamin e nella Scuola di Francoforte), ma rischia l’estinzione tout court. Va da sé che, in tempi di conformismo ambientalista ed informazione a senso unico, i risultati di un tale brodo di coltura rischiano di essere tanto nefasti quanto imprevedibili. Chi esiterebbe, di fronte alla prospettiva, ritenuta reale e anzi probabile, dell’estinzione, a compiere anche i gesti più estremi pur di evitarla?

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I movimenti ambientalisti tedeschi come Ende Gelände (“Fine della terra”, EG) o Letzte Generation (“Ultima Generazione”) e le ramificazioni tedesche di movimenti internazionali come Extinction Rebellion sono passati facilmente dalle parole ai fatti, dando inizio ad una serie di mobilitazioni, ai confini con la violenza, di cui si parla poco nel resto d’Europa.

Blocchi e occupazioni delle carreggiate del Berliner Ring (equivalente berlinese del Grande Raccordo Anulare romano) da parte di militanti ambientalisti sono quasi all’ordine del giorno, con conseguenze che cominciano ad avere ricadute anche dal punto di vista economico, mentre il movimento EG occupa sistematicamente giacimenti di combustibili fossili (sette grandi occupazioni in altrettanti anni, principalmente nel bacino del Reno, cui si aggiungono ripetuti scontri con le forze dell’ordine in numerose città tedesche).

Apocalisse supposta, minacce reali

Movimenti ambientalisti integralisti non nascondono nemmeno più le loro attitudini violente, confidando nell’appoggio istituzionale di un partito di governo, quello dei Verdi, che pure viene spesso contestato e accusato di “compromessi” con gli inquinatori.

Il 16 Maggio scorso, l’attivista e portavoce di Extinction Rebellion Tino Pfaff, in audizione al Bundestag, ha dichiarato di ritenere il sabotaggio di infrastrutture “molto interessante e molto eccitante”, senza che alcuna componente dell’emiciclo ad eccezione di AfD avesse qualcosa da ridire. Parole a cui hanno fatto eco quelle dell’intervista rilasciata al “Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung” dal portavoce di EG Elia Nejem, che ha dichiarato che, se il cancelliere Olaf Scholz continuerà a rimanere sordo alle richieste del movimento, gli attivisti si vedranno costretti a scatenare un’escalation contro porti, aeroporti e altre grandi infrastrutture pubbliche e private. Parole durissime che però non hanno trattenuto uno dei fondatori di EG, Tadzio Müller, dal lanciare una velata minaccia alle istituzioni, dichiarando che “è possibile che si formi una RAF verde”.

Il rimando, in termini quasi apologetici, alla RAF ossia alla Rote Armee Fraktion (il gruppo terroristico comunista che insanguinò la Germania con omicidi e autobombe tra il 1970 e il 1993) è qualcosa di inaudito nella politica tedesca ma sconvolge, ancora di più, la totale passività della politica; che, pur non degnando di attenzione le richieste degli attivisti, non condanna né persegue a termini di legge queste dichiarazioni, di fatto incoraggiandole.

Retroterra culturale, fanatismo e passività istituzionale sono ingredienti molto pericolosi per un Paese, peraltro, in via di impoverimento e fustigato dall’inflazione.

Dopo la Weimar bruna vedremo anche quella verde?

Marco Malaguti
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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.