Questo articolo è una versione emendata del discorso tenuto al Convegno Machiavelli Difesa 2022.
Buongiorno!
Ringrazio i parlamentari presenti e soprattutto il Centro Machiavelli per avermi invitato a questo importante convegno. Convegno che è oggi essenziale, in quanto la rapida evoluzione dello scenario internazionale e l’avvio del conflitto in Ucraina mettono in dubbio molte convinzioni in cui ci eravamo cullati nell’ultimo trentennio.
Ci eravamo, erroneamente, illusi che non avremmo più dovuto prevedere un conflitto “classico” che ci contrapponesse a forze armate con un livello tecnologico comparabile al nostro. Certo, i nostri soldati sarebbero stati impegnati in giro per il mondo, peraltro in numeri comunque contenuti, nel quadro di una gestione delle crisi gestita da qualche organismo sovranazionale (ONU, NATO ,UE), per condurre attività di peace keeping, peace enforcing o al limite anche di counter-insurgency (come avvenuto in Afghanistan); ma noi rimuovevamo il problema chiamandole tutte indistintamente “operazioni di pace”. E, comunque, si sarebbe operato in un contesto in cui noi avremmo potuto avvalerci di una innegabile superiorità tecnologica che, pur schierando pochi uomini sul terreno, ci avrebbe garantito la superiorità nel settore delle informazioni, cyber, supporto aereo, supporto di fuoco, ove fosse stato necessario. Insomma – per essere un po’ brutali – una concezione vagamente coloniale dei conflitti che ci potevano attendere, dove comunque la nostra superiorità tecnologica avrebbe fatto la differenza.
Gli eventi in Ucraina ci impongono cambiare velocemente tale rassicurante approccio.
Intanto, senza voler entrare nella discussione se sia stato giusto o meno, necessario o meno, occorre accettare l’idea che anche noi italiani e la NATO siamo in guerra contro la Russia: abbiamo dichiarato in modo forte da quale parte ci siamo schierati. È certamente vero che, a differenza di trent’anni fa, il nostro confine orientale non coincide più con il confine orientale della NATO. È anche vero che noi per il momento “combattiamo” solo con le sanzioni economiche e con l‘invio di armi agli ucraini. Peraltro, dobbiamo anche tenere in debita considerazione la possibilità di un intervento diretto della NATO ove, nonostante il supporto “indiretto” finora fornito, le forze di Kiev non riuscissero a rigettare i russi aldilà dei confini pre-2014 (obiettivo dichiarato da Zelensky e da Biden, che peraltro appare poco realistico) o addirittura dovessero essere sul punto soccombere (ipotesi che alla luce dei fatti non può essere totalmente esclusa).
Uno scenario che forse non viene abbastanza tenuto in considerazione è che non sia la NATO in quanto tale (su decisione unanime e “consapevole” di tutti i suoi membri) a decidere di intervenire a fianco degli ucraini, ma solo alcuni alleati (ad esempio britannici o polacchi, che appaiono i più convinti che si debba giungere alla guerra diretta contro Mosca e già scalpitano per trascinare la NATO sul campo di battaglia). Successivamente, come avvenuto in Afghanistan nel 2003 (operazione che dal 2001 era condotta da una Coalition of the willing a guida USA) o in Libia nel 2011 (che inizialmente era solo una azzardata iniziativa franco-britannica) , l’intera Alleanza Atlantica potrebbe venire coinvolta, quasi suo malgrado, per assistere un membro in difficoltà. Questa tecnica potrebbe essere in fondo anche un abile escamotage per consentire di porre i Paesi più scettici di fronte al fatto compiuto.
In caso di conflitto, si tenga conto che la Russia ha un footprint militare non indifferente in vari Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e la cosa dovrebbe preoccuparci. Ossia il potenziale “nemico” non sarebbe solo nella lontana Ucraina, ma sarebbe ben presente nel Mediterraneo e sicuramente a Bengasi.
Questi scenari ci impongono di guardare al nostro strumento militare e considerare se così come è sarebbe all’altezza della sfida.
In questo contesto, anche l’Italia ha giustamente deciso di incrementare le spese per la difesa portandole al 2% del PIL entro il 2028, impegno peraltro assunto nel 2014 dal governo Renzi durante il Vertice NATO di Cardiff. E si vanno intensificando dibattiti sull’importanza dei singoli domini (terrestre, navale, aereo, spaziale e cyber) e delle componenti tecnologicamente più avanzate dei singoli settori.
Giustissimo. Sono tanti, troppi i settori che per troppi anni sono stati trascurati ( per lo strumento terrestre si pensi alle artiglierie sia terrestri sia contraeree, alla componente corazzata, alla componente pontieristica del genio, eccetera). Ben venga il rinnovato interesse per questi settori che richiedono urgente ammodernamento. Si abbandonino una volta per tutte anche concetti discutibili come lo “uso duale sistemico” teorizzato un paio di anni fa per fini forse più politici che funzionali allo strumento militare. Le Forze Armate servono soprattutto per consentire allo Stato l’uso della forza (purtroppo anche di quella letale) quando gli altri strumenti di pressione (politica, economica, diplomatica) non siano riusciti a conseguire i risultati desiderati.
Tutto ciò però non può e non deve far passare in secondo piano il fattore umano! La tecnologia, senza l’uomo che sappia e sia motivato ad impiegarla, è inutile. Si possono acquisire le tecnologie belliche più sofisticate, ma se non si dispone di personale adeguato si tratta di soldi buttati. L’esperienza dell’armamento anche di ottima qualità fornito in quantità all’esercito afghano che si è vaporizzato di fronte ai Talebani, o a quello iracheno che si è vaporizzato di fronte all’ISIS, dovrebbe farci riflettere.
Il fattore umano è essenziale in tutte le FF.AA., ma nello strumento terrestre occorre ricordare che spesso il combattente diventa egli stesso sistema d’arma. Il fattore umano non può prescindere da due variabili: qualità e quantità.
La qualità richiede che il potenziale combattente sia idoneo, addestrato e motivato ad assolvere un dovere che può comportare il rischio della vita. Idoneo, da intendersi anche fisicamente idoneo a far fronte a compiti onerosi. Qui non si può fare a meno di evidenziare il drammatico invecchiamento delle nostre FF.AA. L’età media del personale di truppa in servizio permanente è oggi di circa 40 anni. Se già oggi questo fattore desta non poche preoccupazioni, in caso di conflitto tra pochi anni potrebbe essere ingestibile.
Questa situazione non è un imprevisto. È il frutto di scelte miopi, tendenti a soddisfare i tornaconti elettorali della leadership politica di turno, anziché guardare con lungimiranza all’efficienza nel tempo dello strumento militare. In pratica, è il frutto di un sistema ispirato a una concezione che privilegiava il fattore occupazionale rispetto a quello funzionale. Per porvi rimedio potrebbe essere necessario riconsiderare non solo i criteri ma anche le filosofie alla base del reclutamento. Un cambio di paradigma che non sarebbe indolore e che incontrerebbe non poche resistenze politiche, ma che oggi appare non procrastinabile.
Inoltre il personale deve essere addestrato, e ciò richiede disponibilità di poligoni (anche se agli ambientalisti e agli antimilitaristi l’idea non piace) e fondi per l’addestramento (stanti le carenze degli scorsi anni questo è un settore che spesso è stato sacrificato). Peraltro, su questo aspetto non può non incidere la pessima abitudine nazionale di utilizzare l’Esercito come bacino di manovalanza a basso costo. È ovvio che in caso di emergenza o calamità naturale l’Esercito c’è come c’è sempre stato. Ma non può diventare un surrogato per sopperire a carenze in altri settori. Si pensi a “Strade Pulite” (in sostituzione della nettezza urbana) o anche “Strade Sicure” che continua ad assorbire migliaia di soldati.
L’impiego dell’esercito in supporto alle forze dell’ordine iniziò nel settembre 1992, dopo l’omicidio Borsellino, con l’Operazione ”Vespri Siciliani”. Quella era una operazione necessaria e che all’epoca aveva un senso. Dopo 30 anni, se deve esserci con continuità il travaso di forze da una struttura ad un’altra, è difficile parlare di emergenza e si tende più a pensare a disorganizzazione. Se serve incrementare le forze di polizia, si reclutino più poliziotti, ma si salvaguardi la peculiarità militare. Questo continuo distogliere militari per un’operazione che poco o nulla ha a che fare con la loro preparazione specialistica (si pensi ai reparti di artiglieria contraerea o terrestre o a reparti corazzati o specialistici del genio impiegati come aiuto-poliziotti) inoltre compromette inevitabilmente la preparazione dei militari per i loro compiti specifici – e mi pare che il messaggio che ci viene dall’Ucraina sia che si tratti di un malcostume che non ci possiamo più permettere.
In merito alla motivazione, vale la pena rimarcare che nell’ambito delle Forze Armate occorrerebbe retribuire il personale in base alle prestazioni effettivamente fornite e alle responsabilità assunte. Ci si rende conto che non sarebbe facile, in quanto il comparto Difesa è vincolato alla normativa del pubblico impiego, ove l’anzianità fa premio rispetto alla meritocrazia, ma per salvaguardare l’efficienza dello strumento militare occorre accettare il principio di eccezionalità. Inoltre, sarebbe opportuno almeno evitare provvedimenti estemporanei volti a ottenere consensi deprimendo i meritevoli, come nel caso di un discutibile concorso voluto da una recente Ministra, che ha portato alla promozione al grado di maresciallo di VSP (Volontari in Servizio Permanente) e Sergenti con requisiti inferiori a quelli fino ad allora richiesti per l’accesso a tale grado.
Venendo ora all’aspetto quantitativo, è ormai evidente che i volumi organici pensati per la componente terrestre in un contesto geopolitico totalmente diverso non possano essere adeguati alle potenziali esigenze che abbiamo di fronte .
In particolare il modello della legge 244 del 2012, che si proponeva di barattare quantità (ossia personale) per qualità (ossia innovazione tecnologica), deve essere sicuramente messo da parte in quanto nell’immediato futuro è verosimile che servano alla componente terrestre dello strumento militare sia quantità sia qualità. Tale modello prevedeva per le forze terrestri un tetto di 89 mila unità che oggi non appare adeguato. Peraltro, mentre i tagli sul personale bene o male sono stati fatti, i risparmi conseguiti non sempre sono ritornati nella disponibilità della Difesa per essere reinvestiti in innovazione tecnologica.
Inoltre, nel prossimo futuro la “quantità” servirà in misura diversificata per età. Soprattutto nei gradi gerarchicamente meno elevati servirà personale giovane. Il modello cui tendere non potrà pertanto essere, in riferimento all’età del personale, un cilindro che ci porti nel giro di poco tempo ad avere magari personale di truppa prossimo ai sessant’anni, difficilmente impiegabile in incarichi operativi del proprio grado. Occorrerebbe, invece, ispirarsi a un modello conico o tronco-conico, dove il personale arruolato da giovane dopo un certo numeri di anni lasci la FF.AA. per essere destinato ad altro impiego.
Inoltre, per trent’anni, giustamente noi come molti Paesi occidentali (chi più chi meno) abbiamo guardato al modello delle “expeditionary operations”. Modello che richiedeva strumenti militari caratterizzati da elevata capacità di proiezione, supportati da tecnologia bellica sofisticata e basati su reclutamento volontario, con volumi organici più ridotti ma con personale di elevato addestramento, grande professionalità e motivazione e – perché no? – maggior “spendibilità” del personale militare in caso di perdite umane in operazioni esterne al territorio nazionale (perdite che verosimilmente sarebbero state percepite in maniera diversa dall’opinione pubblica se avessero riguardato militari di leva anziché professionisti).
Se dobbiamo tornare a ragionare in termini di operazioni “Articolo 5” – di Difesa e deterrenza, come ci impone il Concetto Strategico della NATO appena approvato a Madrid anche dall’Italia – forse potrebbe essere utile incominciare a pensare a come riconvertire il nostro strumento militare. È anche evidente che, in caso di un ipotetico conflitto “Articolo 5” dell’Alleanza, oltre alle forze inviate al fronte sarebbe necessario potenziare tutte le forme di quella che una volta veniva chiamata “difesa interna del territorio” (sicurezza delle vie di comunicazione, attività antisabotaggio, protezione degli obiettivi sensibili, pattugliamento delle coste , eccetera). Sarebbe, pertanto, opportuno valutare una riapertura degli arruolamenti, magari con criteri diversi. Ossia: non c’è bisogno necessariamente di chi cerca il “posto fisso”, servono anche persone disposte a una sfida per un numero limitato di anni e poi pronte ad altro.
Sia chiaro che un ritorno generalizzato alla coscrizione obbligatoria potrebbe non essere né militarmente necessario né praticamente attuabile (e comunque sicuramente non in tempi brevi) né socialmente accettabile. Occorrerebbe invece prevedere la costituzione di riserve addestrate e prontamente richiamabili per far fronte non solo ad eventuali pubbliche calamità o emergenze sanitarie (esigenza che è apparsa evidente anche ne primi mesi dell’epidemia di covid-19), ma anche in grado di integrare in caso di conflitto le capacità operative dell’ esercito “permanente” , che resterebbe prioritariamente “professionale”. Un simile approccio comporterebbe l’adozione di adeguate previsioni legislative che consentano (come avviene da sempre in altri Paesi, si pensi alla National Guard statunitense o all’Army Reserve britannica) il reclutamento, l’addestramento di base e il periodico richiamo del personale senza che questi venga penalizzato nel suo rapporto di lavoro “civile”.
Il processo per giungere a una tale soluzione non sarebbe semplice né rapido, imporrebbe costi non irrilevanti e una rivisitazione dello strumento militare attuale. Certamente tale compito dovrebbe ricadere sulle FF.AA. regolari e non si può realisticamente pensare di attribuire tale funzione a qualche pur meritoria associazione d’arma in cerca di ampliare il bacino dei propri associati. Anche per adeguare quantità e qualità della “componente umana” dello strumento militare serve pianificazione a lungo termine, attività legislativa e impegno di risorse finanziarie.
In merito all’ormai non procrastinabile ammodernamento dello strumento militare, si spera che non si guardi solo alla tecnologia ma anche agli uomini e alle donne che quella tecnologia dovranno utilizzare sul campo di battaglia, spesso a rischio della loro vita.
Generale di Corpo d'Armata (aus.), ha partecipato a missioni in Bosnia, Israele, Kosovo, Siria e Afghanistan, dove è stato Sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF. È stato inoltre Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles. Attualmente presiede il Centro Studi Storico-Militari e Geopolitici di Bologna.
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