Con il film-documentario Ennio, Giuseppe Tornatore ha reso al genio musicale di Morricone il tributo che meritava. Nel corso della visione del film l’ascoltatore-spettatore più attento viene pervaso da una sensazione di nostalgia causata non tanto dalle ben note composizioni di Ennio quanto dalla consapevolezza che, dopo la morte del Maestro, il nostro Paese nonché il mondo intero è rimasto orfano di un genio artistico insostituibile.
Ennio Morricone fu spinto fin dalla più tenera età alla musica, per volontà del padre, prima che per vocazione. Proprio come il padre infatti divenne trombettista. Per più di dieci anni il giovane Morricone, di origini umili in un ambiente elitario come il Conservatorio di Santa Cecilia, ebbe come maestro Goffredo Petrassi, il quale non poteva mai immaginare che il suo allievo avrebbe fatto musica da cinema. Di certo l’ambiente del conservatorio non vedeva affatto di buon occhio il prestarsi al cinema. A tal punto che il riconoscimento del genio artistico di Morricone da parte della scuola di Petrassi arriverà solo dopo oltre venti anni di colonne sonore, sotto forma di lettera di scuse (con il conseguente pianto liberatorio di Ennio).
Sul finire degli anni ‘50 si assisteva alla prime sperimentazioni d’avanguardia, come quelle di John Cage, fondamentali nello sviluppo della musica contemporanea. Lo stesso Morricone decise di fondare un gruppo di sperimentazione sonora chiamato “Gruppo di improvvisazione nuova consonanza”, quasi riprendendo le sperimentazioni futuriste realizzate con gli intonarumori di Luigi Russolo durante la prima metà del Novecento. Morricone si rivelò subito rivoluzionario nell’arte dell’arrangiamento, a tal punto che fu chiamato a lavorare (e salvare) l’RCA, sull’orlo del fallimento. Da Gino Paoli a Morandi, da pezzi come Il Barattolo ad Abbronzatissima, tutti gli artisti chiedevano di collaborare con lui.
Nel 1963 con Il Federale di Luciano Salce comincia la carriera cinematografica. Essa si svilupperà specialmente con le colonne sonore dei primi Western, a seguito dell’incontro con Sergio Leone, ex compagno di scuola. Tra fischi e colpi di frusta ad accompagnare qualsiasi tipo di strumentazione chitarre, le musiche di Morricone cominciarono a fissarsi nell’immaginario collettivo oltreché cinematografico, districandosi in oltre 50 anni in tutti i generi cinematografici. Ogni fine decennio, a partire dalla fine dagli anni ‘60, dichiarava che avrebbe smesso di fare musica da cinema – cosa che non accadde mai.
Nel 2005 l’antropologa Ida Magli scrisse il saggio-tributo Omaggio agli italiani. Una storia per tradimenti: un’invettiva contro i governanti autoctoni ed allogeni, religiosi e politici che nel corso della storia hanno spesso limitato, contrastato e strumentalizzato quella genialità italiana a cui è dedicata un elogio, all’interno del quale non poteva essere esclusa la figura di Ennio Morricone.
Nella musica qualche residuo lampo della “luce abbagliante” di cui parla Verdi, lo si intravede in Ennio Morricone, un musicista che ha saputo, guardando all’America e al cinema, proporre il fascino preminente dei temi melodici, un tempo sostanza dell’opera lirica, conducendo in pratica lo spettatore sulla strada di un’interiorità mai del tutto anche quando, come nei film di Sergio Leone, si vuole dimostrare che il fondo è stato raggiunto. È la musica l’essenza dei film di Leone: la memoria di indicibile malinconia che ne rimane come unica traccia degli spettatori.
Tuttavia gli stessi americani si dimostrarono completamente ciechi di fronte al genio di Morricone, tributandogli il riconoscimento che meritava fuori tempo massimo, con l’Oscar alla carriera nel 2007. Qualche anno più tardi, nel 2016, dopo essere stato premiato con l’Oscar per la migliore colonna sonora in Hateful Eight aggiunse lapidario: “Non voglio tornare in un’America spaventosa, con tutte quelle pomposità e quella vergogna che chiamano Oscar”.
Esaltante ed a tratti commovente, il documentario di Tornatore nella seconda parte trasporta lo spettatore verso un’altra dimensione sul piano uditivo raggiungendo vette altissime soprattutto ripercorrendo i temi di C’era una volta in America e Mission.
Abbandonarsi completamente nei 150 minuti di documentario è il solo atto di riconoscenza verso l’ultimo rappresentante del genio italico applicato all’arte musicale che ha influenzato e continuerà ad influenzare musicisti provenienti da tutti gli angoli del pianeta.
Laureato in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università degli Studi di Salerno) è laureando in Investigazione, criminalità e sicurezza internazionale (Università Internazionale degli Studi di Roma, UNINT). Pubblicista, collabora con "Quotidiano del Sud- Corriere dell'Irpinia" e con "Oltre la linea".
Scrivi un commento