di Giuseppe Adamo

In Polonia tornano i corsi scolastici di tiro e maneggio armi

Il ministro dell’educazione polacco, Przemysław Czarnek, ha di recente promulgato una legge che riforma i curriculum scolastici per reintrodurre, già da settembre, corsi di base di tiro e maneggio nelle armi. Una decisione che non ha scatenato particolari proteste in Polonia ma che invece ancora oggi scandalizza alcuni media del Belpaese, ignari (forse volontariamente) delle necessità geografiche e culturali che rendono questa decisione non solo necessaria, ma d’esempio e di buonsenso.

Il corso sopracitato, che già esisteva decenni fa in Polonia e che sta solamente ritornando in forma aggiornata, è inserito in un piano didattico allargato di “educazione alla sicurezza”, che già prevede corsi di primo soccorso e sopravvivenza già dalle scuole elementari, cui si aggiunge nel piano didattico a lungo termine (e non va a sostituirli, come erroneamente riportato da alcuni giornali italiani). Le lezioni di tiro e maneggio di armi convenzionali viene fatta esclusivamente ai ragazzi delle scuole superiori e tramite istruttori specializzati, usando pistole di piccolo calibro o repliche di armi (come ad esempio fucili ad aria compressa) o addirittura poligoni di tiro virtuali, in piena sicurezza ed armonia.

I detrattori di questa scelta, condizionati da un bias culturale e dalla mancanza di conoscenza del Paese in questione, tendono a dare la visione distorta di un militarismo e delirio bellicista che imperverserebbe nel governo polacco. Visione alquanto fuorviante e distante da una realtà che è radicalmente diversa da quella italiana.

Le dure lezioni storiche

statua ai bambini soldato del 1944

Statua in commemorazione dei bambini soldato che combatterono e morirono durante la rivolta di Varsavia del 1944. Foto di Cezary Piwowarski, fonte Wikimedia Commons


Per capire a fondo le radici culturali della Polonia bisogna ovviamente partire dal doloroso passato e dalle ferite mai rimarginate che caratterizzano l’animo del popolo polacco: quelli della lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione. Nel 1795, con la spartizione definitiva del Paese, cessò l’esistenza statuale della Polonia per i successivi 123 anni, dividendone il territorio tra impero russo, asburgico e prussiano. Situazione che perdurò fino alla fine della Prima Guerra Mondiale con l’instaurazione della seconda repubblica di Polonia. Un’indipendenza che purtroppo cessò presto, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e la rapida occupazione congiunta dei nazisti e dei sovietici; con i primi dediti alla pulizia etnica della popolazione ebraica e altre minoranze, i secondi al genocidio di ogni élite nazionale polacca (vedi massacro nella foresta di Katyn). Un giogo, quello sovietico, che rimarrà almeno fino al 1989, con il successivo ritiro (completato solamente nel 1993) dei 50mila soldati russi presenti nel Paese a garanzia della stabilità dei vari governi fantoccio comunisti teleguidati dal Cremlino.

La chiave di lettura, per coloro che faticano a capire le recenti decisioni in campo educativo, è rappresentata dall’episodio dell’insurrezione di Varsavia del 1944: il tentativo disperato dei civili di riprendersi la propria capitale dagli occupanti nazisti. Nonostante l’inferiorità addestrativa e di equipaggiamento, il coinvolgimento della società civile in un’eroica resistenza e una mobilizzazione generale durata 63 giorni in un primo momento mise in difficoltà la Wehrmacht, tanto da costringere Hitler a riorganizzare le truppe (che subirono perdite stimate fino a 17mila uomini). I sovietici rimasero intenzionalmente a guardare alle porte di Varsavia per 40 giorni su ordine di Stalin, intervenendo solamente dopo la vittoria tedesca e la totale distruzione della capitale polacca come ritorsione.

LEGGI ANCHE
Conseguenze geopolitiche della conferma di Duda in Polonia

L’idea di difendere la propria esistenza con tutti i mezzi possibili, anche davanti a situazioni che sembrano insormontabili; la fatalità degli avvenimenti sulla quale non abbiamo nessun controllo se non la decisione di organizzarsi e resistere; il rifiuto di ogni compromesso con forme valoriali dai lati oscuri che minacciano la dignità dell’uomo: sono le premesse sulla quale ogni persona dovrebbe interrogarsi per capire finalmente il bisogno di avere una società civile sempre pronta a ogni evenienza. In particolare dopo i recenti avvenimenti nella vicina Ucraina che hanno riacceso le paure di un conflitto globale.

Le armi non sono il male

Questi sono gli argomenti necessari per capire che l’educazione dei minori, anche al corretto uso delle armi, non ha sfaccettature propagandistiche o belliciste ma, al contrario, rientra nel pragmatismo necessario alla sopravvivenza civile ed identitaria. Un’occasione, che varrebbe anche per l’Italia ed il proprio sistema educativo, di non seguire una linea narrativa edulcorata ed eccessivamente protettiva, con la tendenza a demonizzare i mezzi in sé e non l’uso sbagliato degli stessi; o la narrazione semplificata e a tratti smielata di un mondo nel quale tutto sia risolvibile esclusivamente in modo pacifico. Al contrario, si tratta di accettare la drammaticità degli eventi spesso percepiti come lontani ed estranei alla nostra quotidianità, trovandosi sempre pronti a difendere la propria esistenza da ogni minaccia ipotetica, in forma preventiva. Acquisendo la consapevolezza che sì, la violenza e la guerra sono sbagliate, ma di fronte a una minaccia impellente si rendono purtroppo necessarie ed inevitabili per poter garantire sicurezza ai nostri cari e alle nostre famiglie.

Non è un caso, infatti, che all’avvio dell’invasione russa in Ucraina a febbraio, le richieste spontanee di arruolamento in Polonia siano triplicate, insieme all’interessamento da parte dei civili all’acquisto di armi e all’esercizio nei poligoni di tiro. La maggior parte dei polacchi è favorevole al ritorno del servizio di leva e all’aumento delle spese militari, come rilevato da diversi enti statistici nazionali. Nonostante questo, la Polonia rimane comunque uno dei Paesi meno armati d’ Europa, con una media di 2,5 armi da fuoco ogni 100 abitanti (contro l’11.9 dell’Italia).

In conclusione, solamente assorbendo queste premesse i commentatori nostrani potranno finalmente giudicare in maniera oggettiva il buonsenso e il pragmatismo dietro questa decisione, evitando banali errori di valutazione che si rifanno all’emotività del lettore sfruttando l’aura negativa che circonda l’argomento armi e l’eccessiva tendenza nazionale a un’educazione iperprotettiva e a tratti ansiogena.

Giuseppe Adamo, studioso di Europa Centro-Orientale con base in Polonia, è membro della fondazione e scuola di formazione politica “Służba Niepodległej”, Laureato in Studi Europei (Università Cattolica di Lublino) e  in Relazioni Internazionali (Università di Varsavia). Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri polacco.