Riformare le istituzioni italiane per adattarle alle sfide geopolitiche del nostro tempo, intervenendo a livello costituzionale per dare finalmente all’Italia una verticale del potere che, coi necessari contrappesi propri di uno Stato repubblicano, garantisca la stabilità governativa essenziale al corretto svolgimento delle funzioni democratiche.
La maggioranza che uscirà dalle elezioni del 25 settembre, qualora riuscisse a rimanere coesa dopo le urne e ad allargare gli intenti riformatori ai rappresentanti di diverse esperienze politiche, avrà l’arduo ma non più rinviabile compito di ridefinire l’assetto istituzionale italiano. Trasformandolo in senso presidenziale, snellendo il processo decisionale, riducendo drasticamente il potere dei veti, conferendo al futuro premier italiano il potere di muoversi, soprattutto in politica estera, al riparo delle litigiosità partitiche. Pena l’irreversibile slittamento del nostro Paese verso mete simil-pretoriane, già fortemente riluttante com’è a difendere i propri interessi nel mondo anche per carenze strutturali.
La cronica instabilità politica italiana
La caduta di Mario Draghi è stata accolta con stupore dalle cancellerie internazionali, incredule di fronte all’incapacità del Belpaese di scommettere fino all’ultimo su un presidente del Consiglio obiettivamente capace e autorevole, ma per nulla sorpresi dell’intrinseca instabilità istituzionale italiana. Quello dell’ex presidente della Banca Centrale Europea è stato il 67esimo esecutivo della storia repubblicana. In poco meno di 77 anni l’Italia ha cambiato in media quasi un governo all’anno. A parte le eccezioni dei governi Craxi, Berlusconi e Renzi gli esecutivi del Dopoguerra non hanno mai superato lo scoglio dei mille giorni. Di contro, chi ha la (s)fortuna di sedere a Palazzo Chigi partecipa agli stessi consessi internazionali di Francia e Germania, due nazioni che hanno avuto nello stesso arco di tempo solo nove/dieci capi di governo ciascuna, meno di un terzo dei nostri. Angela Merkel ha governato in Germania per sedici anni, seppur nell’ultimo periodo anche la Cancelliera più longeva della storia tedesca ha dovuto condurre estenuanti negoziati per mantenere salda la coalizione di governo.
La storica debolezza e la perenne instabilità dei governi dell’Italia repubblicana picconano la credibilità dei nostri rappresentanti nell’arena internazionale, compromettono il potere negoziale del presidente del Consiglio alle prese con autocrati e grandi potenze, contribuiscono a relegare inesorabilmente la Penisola a ruolo subalterno.
Nubi geopolitiche a oriente e meridione
Le sfide geopolitiche cui l’Italia non potrà sottrarsi nei prossimi anni devono spingere Roma a un urgente cambio di rotta. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha accelerato le dinamiche della storia. In poche settimane l’Unione Europea ha escluso Mosca da qualsiasi integrazione nel campo europeo attraverso un drastico regime sanzionatorio; la Germania ha in parte corretto il suo assetto economicistico post-bellico annunciando un mastodontico piano di riarmo militare; l’Italia ha ridotto in maniera significativa l’utilizzo del gas russo, cui era storicamente dipendente; Finlandia e Svezia hanno abbandonato il neutralismo per entrare nella Nato.
Agli eventi provenienti dal mondo post-sovietico si aggiungono le turbolenze del fianco Sud, area di straordinaria rilevanza per l’Italia, da cui dipendono sicurezza e proiezione d’influenza regionale. L’instabilità statuale e socioeconomica del Nord Africa, acuita dalla catastrofe alimentare per adesso solamente rinviata, costituisce una bomba ad orologeria che rischia di esplodere in ogni momento. Mentre i nuovi vicini turchi e russi, che ormai da anni si spartiscono quel che rimane della Libia, hanno per vocazione imperiale e disinvoltura nell’uso dello strumento militare la possibilità di aumentare la pressione da sud anche attraverso l’utilizzo abile della leva energetica e migratoria. Il crescente attivismo di medie potenze poco refrattarie a condurre assertive manovre belliche nel nostro giardino di casa è un tema che dovrebbe innescare la reazione della politica, nel classico colpo di reni necessario a uscire dalle sabbie mobili prima di colare definitivamente a picco. I servizi segreti italiani, come fatto notare da Repubblica, hanno già messo in guardia sulla possibilità che i mercenari russi della Wagner, ormai di casa in Cirenaica, decidano di aprire i rubinetti e lasciar partire migliaia di migranti in direzione dell’Italia. Potere di ricatto in mano anche al presidente turco Erdogan, con la Guardia Costiera tripolina da tempo sotto il controllo di Ankara.
Perché serve il presidenzialismo
La contingenza storica per riformare lo Stato è, quindi, favorevole. L’impellenza di dotarsi della stabilità governativa e di una verticale del potere propria dei sistemi presidenziali o semipresidenziali è giustificata da diversi fattori.
Anzitutto, la protezione da parte degli Stati Uniti con il loro ombrello nucleare continuerà, ma l’attenzione che porranno al contenimento della Cina nell’Indopacifico, con un disimpegno già in atto dal Medio Oriente, impone ai Paesi europei l’assunzione di maggiori responsabilità. Italia compresa. E un governo debole, perennemente sotto ricatto dei veti incrociati, traballante a causa di una maggioranza poco coesa o non sufficientemente larga, è tutto fuorché credibile a livello internazionale. Anche con Draghi al governo. L’immagine del quasi ex presidente del Consiglio sulla panchina del Prado, lontano dai colleghi della Nato perché al telefono nel tentativo di risolvere le beghe domestiche e costretto a rientrare anzitempo dalla missione con l’obiettivo di non fare cadere l’esecutivo, è emblematica.
In secondo luogo, altre nazioni stanno pensando di aggiornare la loro postura internazionale. Giappone e Germania, Paesi sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale proprio come l’Italia, hanno già mosso dei passi per rientrare a pieno titolo nella Storia. Oltre al già citato riarmo tedesco, anche Tokyo ha avviato da anni una discussione per superare il principio del pacifismo in costituzione, imposto dagli Stati Uniti per scongiurare un’altra guerra di aggressione nipponica dopo Pearl Harbor. Allo stesso modo, la Costituzione italiana, scritta anch’essa sotto dettatura americana al fine di evitare il ritorno di uno Stato forte dopo gli errori e gli orrori dell’esperienza dittatoriale, è stata un lusso che l’Italia si è concessa anche grazie alla garanzia di protezione americana. La quale, oggi, è molto più debole di allora.ù
Crisi e verticalizzazione del potere
Il generale francese Charles De Gaulle, nel 1958, riuscì a fare approvare una riforma costituzionale che affidava maggiori poteri all’esecutivo in risposta alla crisi per l’indipendenza dell’Algeria, allora sotto il dominio coloniale francese. La nuova costituzione fu cucita addosso a De Gaulle, il quale chiedeva maggiori poteri per affrontare l’emergenza. I presidenti francesi da allora hanno il potere di ordinare uno strike nucleare senza passare dal parlamento – anche per questo chi siede all’Eliseo viene definito “monarca repubblicano”. La situazione bellica che oggi riguarda direttamente l’Italia dovrebbe spingere i partiti a trovare una quadra sulle riforme da adottare, proprio come i francesi fecero in un momento simile caratterizzato da insicurezza e foriero di instabilità.
Ecco, quindi, che l’entità delle minacce che si stagliano all’orizzonte esige la ricerca del perseguimento di più nobili obiettivi. Una costituzione vicina al modello presidenziale, che abbandoni velleità regionalistiche e che attribuisca più poteri al presidente – segnatamente in politica estera –, accompagnata da una legge elettorale che assicuri governabilità, è indifferibile. E dovrà essere una priorità del prossimo governo, il quale dovrà coinvolgere nel progetto anche buona parte dell’opposizione. Non per semplice dato numerico necessario all’approvazione della riforma, ma per ottenere la più ampia legittimità a sostegno di un radicale cambiamento che potrebbe attrezzare il Paese ad affrontare le crescenti turbolenze geopolitiche. Il potere diffuso a livello orizzontale dovrà lasciare il posto a uno più verticale, in grado di agire, anche in ottica di lungo periodo, per garantire la sopravvivenza del nostro Paese nel mondo.
Giornalista e analista geopolitico, lavora per un'agenzia di comunicazione e scrive per "Il Caffè Geopolitico". In precedenza ha avuto esperienze con Mediaset, Institute for Cultural Relations Policy (Ungheria) e European Public Law Organization (Grecia). Dottore magistrale in "World politics and international relations" (Università di Pavia) con un master in Giornalismo (Università Cattolica di Milano).
Scrivi un commento