di Gioacchino La Rocca

(segue)

Dal “progresso scientifico” al “progresso sociale”

Su un assunto non dissimile, vale a dire sulla capacità dell’uomo di dominare l’esperienza, è radicato il senso della parola “progressista”.

Alla base del nucleo semantico oggi percepito in questa parola vi è il suo collegamento con le ricadute sociali del progresso scientifico. A partire dal XVIII secolo si constatò che attraverso il progresso scientifico e tecnologico l’uomo non è solo in grado di comprendere la natura e controllarne i processi; egli è in grado di rivoluzionare – letteralmente – la propria condizione umana e sociale grazie ad una più efficace produzione e distribuzione della ricchezza. In altre parole, attraverso il progresso scientifico, attraverso le macchine, l’uomo è in grado di incidere sulle strutture socioeconomiche della collettività e, dunque, sulle condizioni di vita di quanti ne fanno parte: il progresso, ad un certo punto, sembrò essere lo strumento per svincolare la massa degli esseri umani da secolari rapporti di dominio. Le parole “progresso” e “progressista” si gravano così di vaghe, ma sensibili, venature ideologiche, tanto da indurre le scienze sociali a preferire alla parola “progresso” i termini “sviluppo” o – per quanto riguarda l’economia – “crescita”1.

Le conseguenze più laceranti della saldatura tra scoperte scientifiche e istanze ideologiche si possono verificare in tempi recenti, quando le biotecnologie si sono mostrate in grado di intervenire sulle stesse basi biologiche della specie umana, ossia sulla “natura”. In forza della saldatura predetta ciò ha determinato e determina il tentativo di rimodulare i rapporti tra “natura” e “cultura”, nel senso che – ridefinita artificialmente la prima – si pretende di condizionare nella stessa direzione la seconda, nel tentativo di riscrivere completamente la struttura antropologica della società in vista di una prospettiva postumana o transumana2, dove “i sessi sconfinano e mutano, le differenze scolorano e si uniformano, la natura è abolita, la realtà è revocata”3. Si prospetta, così uno scenario vago ed indefinito4, cui inevitabilmente corrisponde un “divenire compulsivo”, un “restare perennemente incompiuti e indefiniti”5.

Sono esempi significativi, che rendono evidente la necessità di non rimanere prigionieri della “magia delle parole”. La parola “progressista” è solo un “bollino”, che viene applicato a progetti, i quali assai spesso, lungi dal recare un effettivo miglioramento della condizione umana, mirano ad una riscrittura artefatta dei rapporti etici sociali e politici.

Una società liquida e distopica

I rilievi fin qui svolti sembrano univoci nel senso che, malgrado la loro apparente positività, le parole “liberale” e “progressista” si rivelano in concreto funzionali ad una società intrinsecamente alienante. La carica di positività che avvolge quelle parole è destinata a essere messa in discussione quando si presti attenzione a taluni loro riflessi nella società odierna: entrambe sono minate dalla accertata manipolabilità delle scelte individuali; entrambe pongono il problema delle coordinate biologiche della specie umana. Non è più solo questione di “morte delle ideologie” o delle idee; v’è ben altro: gli esseri umani sono completamente privati di termini di riferimento nel momento in cui in cui si mira a dissolvere la loro stessa fondazione biologica. Non solo si degrada la diversità sessuale a “fattualità biologica”, deprimendone così il connotato valoriale; non solo si propone una ridefinizione antropologica della maternità ipotizzando una “maternità altra” rispetto a quella “tradizionale”6, ma si progetta – in assoluta coerenza con il “progressismo” – un uomo non più tale perché radicalmente trasformato rispetto al passato grazie all’azione sinergica delle aree di punta della ricerca scientifica7.

Nella stessa direzione si pone la c.d. cancel culture8: come noto, si tratta di un processo di censura/rimozione di quanto nel passato è ritenuto in contrasto con orientamenti del presente, i quali, benché per lo più assolutamente minoritari, trovano palcoscenici di primo piano tra i c.d. “progressisti”. Non è certamente un fenomeno nuovo. La damnatio memoriae, ossia la riscrittura e la cancellazione del passato, è stata sempre praticata dai vincitori al fine di avvalorare la loro superiorità anche morale verso i vinti. Gli esempi sono tanto facili da diventare stucchevoli; essi possono spaziare dalla luce negativa proiettata dalla repubblica romana sugli ultimi re etruschi alla recente storia italiana. Quanti provano a correggere l’analisi del passato vengono trattati con sufficienza, quali “revisionisti”, se non ridicolizzati: è sufficiente ricordare il trattamento riservato pochi anni or sono a Renzo De Felice solo per il fatto che provò ad arginare una “mutilazione della realtà storica”9.

La cancel culture merita la massima attenzione, dal momento che costituisce l’insospettabile conferma di uno dei motivi di fondo di queste pagine. Essa, infatti, muove dal presupposto – qui condiviso – che le radici della generazione presente sono nella Storia, nella sua cultura. Eliminare Storia e cultura, costruirle come un insieme di errori ed aberrazioni, “mutilare la realtà storica” non è affatto espressione di “ignoranza” o “stupidità”, come talora si vorrebbe. Al contrario, la cancel culture è parte integrante di un tentativo sofisticato di riconversione della società, nella consapevolezza che ciò può essere possibile solo attraverso lo sradicamento della società stessa dal suo passato.

L’assenza di riferimenti, infatti, non è senza conseguenze: chi non ha una bussola che in qualche modo lo indirizzi, non ha rotta da seguire; va dovunque lo meni la pulsione del momento o delle suggestioni ricevute dagli imbonitori mediatici; smarrisce sé stesso; confonde la libertà con l’arbitrio. “Arbitrio” è parola assolutamente calzante ed appropriata, non tanto perché è quella fatta propria da Kant, quanto soprattutto perché essa rappresenta in modo assolutamente fedele, sia la situazione di incondizionata “libertà” auspicata dal più coerente ed importante teorico del liberismo della fine del Novecento10, sia i ricordati progetti di rimodulazione sociobiologica degli esseri umani, con la differenza che in essi non vi è traccia della “legge morale”, che secondo Kant avrebbe dovuto guidare l’azione degli individui.

Come pure non v’è traccia di “legge morale” nella libertà che caratterizzerebbe – secondo una analisi recente – la società attuale, la cui cifra distintiva viene individuata nella “liquidità”: “Sentirsi liberi significa non avere intralci, ostacoli, resistenze o altri impedimenti a movimenti presenti e futuri”11.

Anche in questo caso il momento fondativo della società è l’individuo, con i suoi interessi e le sue scelte: alla base della “società liquida” vi è l’“autoaffermazione dell’individuo”, il quale ridefinisce su sé stesso “il discorso etico-politico”. Quest’ultimo, in particolare, è tradotto nei termini di “un diritto degli individui di restare diversi e di scegliere e adottare a loro piacimento i propri modelli di felicità e uno stile di vita loro consono”12.

Senonché, per tale via la “società liquida” si espone allo stesso “baco” già riscontrato a proposito della prospettiva “progressista”, non diversamente da quella “liberale”. Anche la “società liquida”, infatti, lungi dall’essere spazio di realizzazione degli individui, si trasforma nell’arena della loro mistificazione ed alienazione, atteso che il “libero arbitrio”, di cui parla Bauman, assai spesso è tutt’altro che “libero”: “il libero arbitrio”, infatti, non è affatto il fedele riflesso dell’autenticità degli esseri umani. Al contrario, come ormai sappiamo, l’essere umano e il suo arbitrio possono essere manipolati, eterocondotti da gruppi di pressione del potere economico e massmediale, influencer di vario tipo, che alimentano un’industria culturale e non, ovviamente funzionale agli interessi di quanti la generano: in un contesto di questo tipo, oggettivamente di problematica confutazione, sembra del tutto estemporaneo qualsiasi riferimento ad una libera e consapevole autodeterminazione.

La dissoluzione della società liquida

Si ritorna così al tema di fondo della “società liquida”, vale a dire la “autoaffermazione dell’individuo”, che si sostanzierebbe – come già ricordato – nel “diritto degli individui di restare diversi e di scegliere e adottare a loro piacimento i propri modelli di felicità e uno stile di vita loro consono”.

Non può sfuggire l’elemento dirompente presente in questo “diritto all’autoaffermazione”. Siamo di fronte ad un diritto insuscettibile di alcun condizionamento: ciascun individuo non ha solo diritto di essere “diverso”, ma sceglie “a suo piacimento”, ossia in modo evidentemente insindacabile e illimitato, “modelli di felicità ed uno stile di vita loro consono”. Occorre guardarsi dall’errore di ritenere che siamo di fronte ad un’iperbole del sociologo: il Ddl Zan configurava in questi termini il “diritto all’identità di genere” e pretendeva di elevarlo a parametro accolto dalla legge. Quel che qui interessa sottolineare è che un “diritto alla diversità” di questo tipo diventa di assai ardua composizione con la “diversità” degli altri “membri della polis”13, con la conseguenza che, in questa prospettiva, diviene problematica la stessa sopravvivenza della polis medesima, tanto più che quest’ultima è condannata a conquistare l’unità ripartendo ogni giorno da zero a causa delle diversità – sovrane ed insindacabili – quotidianamente emergenti14.

Si delinea, in altre parole, una società intrinsecamente destinata alla dissoluzione, dal momento che difetta l’indispensabile presupposto affinché le convinzioni, i valori, gli stili di vita dei suoi singoli componenti possano trovare quella continua composizione auspicata dal sociologo. Invero, una qualsiasi composizione delle “diversità”, al pari di qualsiasi “contratto sociale”, di qualsiasi convivenza organizzata15, postula necessariamente un qualche senso di “comunità” condiviso tra i partecipanti. Senonché, Bauman esclude a priori un tale senso di comunità: a suo parere non vi sarebbe (più) spazio per un “sogno comunitario”16.

“Natura”, “cultura” e comunità: la prospettiva costituzionale

Occorre guardarsi dall’errore di sottovalutare le percezioni di Bauman. Egli coglie che il processo di privatizzazione e di individualizzazione della società ha condotto l’essere umano del mondo occidentale ad una solitudine, dalla quale Bauman non intravede vie d’uscite.

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Questa condanna, questa situazione di perdita della stessa identità umana non sembra in realtà senza appello. Due secoli or sono Hegel, con i Lineamenti di filosofia del diritto, diede risposte ad un uomo che – al pari di quello odierno – era stato sradicato dalle sicurezze del passato ad opera della rivoluzione industriale. Non diversamente da quello di oggi, anche quell’uomo si sentiva “solo” perché aveva perso i riferimenti che ne costituivano il momento fondativo. A quell’uomo Hegel indicò che la via del riscatto passa attraverso le diverse comunità nelle quali, a ben vedere, la sua vita continuava a svolgersi: comunità di lavoro, comunità locali, associazioni, lo Stato. Tutte queste aggregazioni – osservò Hegel – sarebbero diverse da quelle che sono senza l’azione di ciascun singolo individuo, il quale, a sua volta, invera in esse la concretezza della sua esistenza e della sua libertà.

Il senso è evidente. Se la “autoaffermazione dell’individuo” non vuole ridursi a una mera esercitazione affabulatoria, non può che esprimersi in quella “socialità” che è l’inevitabile condizione di ciascun essere umano17. In altre parole, la “autoaffermazione dell’individuo” non può che aver luogo all’interno di “comunità”, alla cui qualità egli contribuisce proprio con la sua “autoaffermazione”. Vi è, però, una condizione necessaria affinché questa simbiosi “individuo-comunità” possa effettivamente realizzarsi: essa consiste nel fatto che una “comunità” effettivamente vi sia.

Può sembrare non semplice pensare la “comunità” nella terza decade del XXI secolo, quando il “giro del mondo” non si fa più in ottanta giorni, ma in poche ore, e la tecnologia ci consente di relazionarci direttamente ed immediatamente con persone lontane. Peraltro, queste constatazioni non inficiano il fatto che anche in un mondo “globale” i rapporti umani si costruiscono sulla prossimità: prossimità familiari, prossimità di lavoro, prossimità di interessi, prossimità di costumi, prossimità di cultura, prossimità di valori.

Di qui la necessità di interrogare e recuperare il tessuto connettivo delle comunità in cui si dipana la vita di ciascuno. Nella recentissima riforma costituzionale dell’art. 9 vi sono indicazioni preziose in questa direzione18. Più precisamente, nel riformato art. 9 Cost. sono accostati tre “concetti”, sul cui collegamento non sembra esservi stata completa attenzione: “cultura”, “Nazione”, rapporto tra le generazioni19. Immaginare con Bauman una società che “inventa” sé stessa ogni giorno è solo un esercizio intellettualistico vago e sterile. Le comunità di oggi sono, infatti, il frutto di quelle passate, della loro Storia, con le sue luci e le sue ombre: l’art. 9 Cost. non fa che prenderne atto. Le comunità esprimono valori, costumi, cultura, e a loro volta sono espressione di valori, costumi, cultura, i quali, dunque, devono essere recuperati, rielaborati, conservati, nella consapevolezza che solo comunità, Nazioni, Stati confidenti nei loro valori possono, per un verso, collaborare paritariamente con le altre Nazioni che storicamente ne condividono valori e cultura, e per altro verso possono misurarsi con le sfide di un mondo globale e le conseguenti aperture – anche umanitarie – che solo una matura coscienza di sé rende equilibrate.

A ben vedere, l’art. 9 pone le basi di un nuovo ambientalismo, fondato su “cultura” e “natura”, ed in questa direzione si collega con gli artt. 2 e 3 Cost., i quali qui si segnalano per la centralità assegnata al singolo individuo (art. 2), visto nella sua caratterizzazione biologica di “persona umana” (art. 3).

Il collegamento non sembra privo di interesse. Innanzi tutto, gli artt. 2 e 3 intervengono sull’art. 9, disinnescando la possibilità che il suo riferimento alla “biodiversità” e agli “ecosistemi” possa essere ritenuto un cedimento al c.d. “antispecismo”20. L’art. 9 Cost., infatti, non solo non contiene alcun elemento idoneo ad infirmare la centralità della “persona umana” fissata dagli artt. 2 e 3 Cost., ma al contrario rafforza tale centralità, in primo luogo, allorché esplicitamente asservisce “biodiversità” ed “ecosistemi” allo “interesse delle future generazioni”, nelle quali la persona umana perpetua sé stessa; in secondo luogo, l’art. 9, con il suo accento sull’ambiente, le biodiversità ecc., conferma che le declinazioni biologiche, naturali, della “persona umana” devono necessariamente partecipare dell’intangibilità riservata alla biodiversità e all’ambiente e, dunque, non possono essere alterate, nella loro cadenza naturale, dalla tecnologia, anche ovviamente per quanto riguarda le modalità riproduttive.

Gli artt. 2 e 3 pongono il delicato rapporto tra la persona e le comunità, le quali altro non sono che le “formazioni sociali” menzionate nello stesso art. 2. In tali formazioni sociali, in tali comunità, l’art. 2 riconosce la condizione per lo “svolgersi”, vale a dire per l’effettivo concretizzarsi, della personalità individuale. Non diversamente, l’art. 32 Cost. traccia un evidente parallelo tra lo “sviluppo della persona umana” e la “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In entrambi il pensiero va al motivo hegeliano dell’inveramento dell’individuo nelle formazioni sociali, nelle quali egli vive ed opera. Queste assonanze sono certamente temperate dal carattere assegnato a taluni diritti dell’individuo: più precisamente, l’art. 2 Cost. impone alla Repubblica, dunque allo Stato, di riconoscere e garantire i “diritti inviolabili dell’uomo”, senza peraltro specificare quali essi possano essere. Certamente tali “diritti inviolabili” non possono confondersi con l’egotico – quanto evanescente – “diritto all’autoaffermazione” di Bauman. Ciò, non solo perché essi debbono necessariamente misurarsi con i “diritti inviolabili” altrui, ma – soprattutto – perché essi non possono scindersi dai “doveri inderogabili”, che pure affiorano dall’art. 2. Emerge, così, un principio etico-politico dal valore costitutivo: i diritti “inviolabili” degli individui sono intimamente collegati con i loro “doveri inderogabili”, con i quali non possono non conciliarsi. Questa connessione definisce la trama fondamentale della comunità nazionale in quella prospettiva di solidarietà, nella quale la Costituzione individua uno dei compiti primari della Repubblica.

In conclusione, non più solo l’etica sostanzialmente unilaterale dei “diritti” predicata da “liberali” e “progressisti” a prescindere dalla realtà umana, ma un’etica e una politica che coniughino diritti e doveri all’interno della comunità in cui si svolge la vita delle persone. Questo – nella inevitabile genericità di poche pagine – può essere un primo passo per comprendere il possibile senso della parola “conservatore” nel XXI secolo.

1 Pie. Rossi, Progresso, voce dell’Enc. delle scienze sociali, Roma, VII, 1997.
2 V. Erario, Transfemminismo istituzionalizzato, “Dossier del Machiavelli” n. 32, 2022.
3 M. Veneziani, La Cappa. Per una critica del presente, Venezia, 2022, 11. Esempi possibili di richieste di questo tipo, puntualmente accolte da quanti si dichiarano “progressisti”, sono la rincorsa alle “identità di genere” nel c.d. Ddl Zan (v. La Rocca, Tecnica legislativa e conflitti culturali nel d.d.l. Zan, in www.ilcaso.it) e l’aspirazione a ricorrere alla maternità surrogata da parte di coppie omosessuali.
4 Ne accenna M. Malaguti, La Destra affermatrice.
5 Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, 2011, VI.
6 Zatti, Di là dal velo della persona fisica. Realtà del corpo e diritti “dell’uomo”, in Maschere del diritto. Volti della vita, Milano, 2009, 205 ss, 221.
7 Tra molti Reichlin, Oltre l’uomo? L’ideologia scientista del transumanesimo, in “Aggiornamenti sociali”, 2012, 753 ss.; Rossetti, Il transumanesimo, in “Rassegna di teologia”, 59 (2018), 373 ss.
8 Veneziani, op. cit., 67 ss.; N. Greppi, Contrastare la cancel culture. Inquadramento e proposte pratiche, “Dossier del Machiavelli”, 2021.
9 E. Gentile, Introduzione a Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, a cura di E. Gentile, Roma-Bari, 2008.
10 Friedman, Liberi di scegliere, ed. it., Milano, 1981, spec. 67 ss.
11 Bauman, op. cit., 4.
12 Bauman, op. cit., 20.
13 Bauman, op. cit., 208.
14 Così ancora Bauman, op. cit., 208.
15 Per le necessarie precisazioni sul concetto v. almeno Gough, Il contratto sociale. Storia critica di una teoria, ed. it., Bologna, 1986.
16 Bauman, op. cit., 196 ss.
17 Forse non è ultroneo richiamare Aristotele, Politica, Roma-Bari, 1993, 1253 a, 1-5, dove – detto incidentalmente – non mancano osservazioni che oggi sembrano “sconvolgenti”: “Se si studiassero le cose svolgersi dall’origine … se ne avrebbe una visione quanto mai chiara. È necessario, in primo luogo, che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati … per esempio la femmina ed il maschio in vista della riproduzione” (1252 a, 25-30).
18 Sul nuovo art. 9 v. Agnoli, L’ambiente nella Costituzione.
19 Il collegamento tra questi aspetti non nasce oggi: v. ad es. Al. Rocco, Scritti e discorsi politici, Milano, 1938; per il collegamento tra Patria, pietas e cultura v. recentemente Ronco, Essere “patriota”, ossia la verità della Patria, in L-JUS, 2-2021.
20 Come temuto da Milano, Con la riforma degli artt. 9 e 41 Cost. l’ecologicamente corretto entra in costituzione.

gioacchino la rocca
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Consigliere Scientifico del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Già Capo dell'Ufficio Legale di una banca, è attualmente Professore Ordinario di Diritto civile all'Università di Milano-Bicocca. Ha pubblicato sei libri e circa un centinaio di articoli e scritti minori in materia di diritto privato, commerciale, bancario, finanziario.