di Giulio Maria Sibona

Le elezioni del 2 ottobre 2022 hanno consegnato al Brasile uno scenario di incertezza e polarizzazione tipico di ormai molte democrazie occidentali. Dopo anni di presidenza di Ignacio Lula da Silva, seguita da quella della fedele Dilma Rousseff, e una presidenza del prorompente Jair Bolsonaro, la sfida si apre proprio tra i due leader più carismatici, con un voto che appare molto meno certo di quanto previsto dai sondaggi.

La stagione del Partito dei Lavoratori (PT) – non il partito più radicale – di Lula sembrava inevitabilmente conclusa con il suo arresto e la sua condanna. Esaurite le candidature per Dilma Roussef, il partito socialista nel 2018, contro Bolsonaro, si era affidato senza alcun successo a Fernando Haddad. La magistratura aveva infine assolto lo stesso Lula permettendogli di ricandidarsi e scontrarsi con il presidente uscente del Brasile, che ha fatto girare il volante tutto a destra dopo anni di politiche socialiste.

Come già detto i sondaggi apparivano tanto chiari nello scarto – intorno al 10%, con punte del 16% – che davano pochi dubbi sui risultati e addirittura permettevano a Lula di poter sperare nella vittoria già al primo turno. Bolsonaro aveva criticato queste previsioni, sostenendo che fossero artificiose per celare l’evidenza di brogli vari (tra cui nei già noti voti per posta).

E invece, proprio al contrario di quelle previsioni, il Sud della Nazione, con tendenze più conservatrici, ha effettuato lo spoglio delle schede molto più velocemente, dando inizialmente un vantaggio insperato al Presidente uscente, con picchi di oltre il 5%, e confermando le sue supposizioni. I voti di Lula invece venivano dalla zona Nord e Nord-est, dove c’è più povertà; dalle celeberrime favelas, divenute famose col cinema americano; dalle campagne povere. Qui lo spoglio è proceduto tanto a rilento che lo svantaggio è stato recuperato solo quando lo scrutinio era avanzato al 70%.

In particolare, Bolsonaro ha conservato tutto il Centro e Sud della nazione, riuscendo a trattenere più del previsto la fiducia degli elettori, ma ha ceduto alla Sinistra alcune importanti roccaforti come l’Amazzonia e Tocantis, che nel 2018 gli permisero di battere il candidato socialista Haddad. Il risultato si colloca comunque entro le peggiori aspettative di Lula, che arriva primo ma non sfonda, e nelle migliori di Bolsonaro, che riesce a tenere aperta la partita per il secondo turno.

Il risultato finale del primo turno è quindi: 48,43% di Lula contro 43,20% di Bolsonaro, con piccole residue percentuali di candidati minori  che saranno in palio al ballottaggio del 30 ottobre per decidere chi dovrà guidare il Brasile negli anni a venire. I numeri tuttavia non parlano molto chiaro: Lula e Bolsonaro dovranno convincere indecisi e residui elettori per arrivare alla soglia del 50%+1 di elettori.

Come accennato ci sono altri candidati minori che hanno ottenuto percentuali piccolissime, determinando proprio questo esito così polarizzato. La prima è Simone Tebet, sostenuta dal Movimento Democratico del Brasile (che durante la dittatura militare, 1964-1985, era l’unico partito di opposizione consentito). Questo movimento godette a lungo di alte percentuali grazie alla sua terza via centrista, tra socialdemocrazia e liberalismo; oggi la sua candidata si attesta terza, ma solo al 4,5%.

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In quarta posizione, col 3%, è Ciro Gomes col Partito Democratico del Lavoro, socialdemocratico, di sinistra, ma molto moderato e il cui elettorato potrebbe riservare notevoli sorprese: già in campagna elettorale Gomes non aveva risparmiato critiche a Lula.

Per quanto sia probabile che i voti del Movimento Democratico, democratico e centrista, vadano in via preferenziale a Bolsonaro “contro il pericolo rosso” incarnato da Lula, il distacco tra i primi due ammonta a 6 milioni di voti, ben più dei 5 milioni ottenuti dai centristi. Tuttavia non è affatto scontato che chi ha appoggiato il candidato socialdemocratico moderato opterà al ballottaggio per un socialismo più spinto.

Oltre che per la presidenza si è votato anche per il rinnovo della Camera dei Deputati e del Senato, che offrono uno spunto sugli umori della nazione. Bisogna qui premettere che il Brasile ha un sistema partitico estremamente frammentato: non solo destra, centro e sinistra, ma tanti partitini con sfumature talvolta minime tra essi. Le compagini di maggioranza negli ultimi anni sono state di volta in volta coalizioni di sinistra o di destra, coi diversi partitini di centro in supporto esterno.

Senza analizzare partito per partito, basti sapere che il fronte nazionalista ha ottenuto la maggioranza sia alla Camera sia al Senato, soprattutto grazie al sostanziale incremento di voti al Partito Liberale (tale solo di nome) di Bolsonaro e dei Repubblicani. Sul fronte opposto invece conferma i propri voti il Partito dei Lavoratori di Lula, mentre per tutti gli altri partiti della Sinistra la perdita di voti è determinante. Quello che emerge dai numeri è che nel Parlamento la maggioranza è detenuta dalle forze conservatrici e nazionaliste: questo potrebbe suggerire che in una elezione tanto polarizzata al secondo turno i voti saranno indirizzati verso il candidato di quella parte.

Ovviamente la sfida è molto difficile: per vincere Bolsonaro dovrebbe sperare che Lula abbia già fatto sostanzialmente il pieno nel primo turno. Appare altrettanto difficile che Lula possa vincere con un margine ampio, segno di una forte disapprovazione per la presidenza Bolsonaro. E comunque, per quanto ampia dovesse essere la vittoria di Lula, si troverebbe con un Parlamento contro.

Laureato in Giurisprudenza, specializzato in Diritto agroalimentare quale settore strategico italiano di economia reale. Appassionato di politica, storia, filosofia, spiritualità. Da oltre 10 anni scrive di politica nazionale e internazionale, sulle trasformazioni che il mondo sta vivendo.