Non c’è dubbio che il problema del drammatico caro-energia sia stato esacerbato dalle tensioni con la Russia e dalla speculazione finanziaria. Eppure, le bollette avevano preso a salire già da tempo prima che i Russi cominciassero ad assiepare le truppe lungo i confini con l’Ucraina. Perché? La risposta è semplice ed ha trovato espressione nel nostro Paese in due parole: transizione ecologica. L’agenda “verde” di conversione rapida e totale all’energia rinnovabile per azzerare le emissioni di CO2. Quella che sarà riconfermata settimana prossima in Egitto, in occasione della COP27.
Quest’agenda non si traduce solo in bollette più care. Al di là di certe visioni edulcorate e apologetiche, essa condurrà a una revisione profonda del nostro modo di vivere: revisione che per la gran parte della popolazione si tradurrà in abbassamento del tenore di vita. È impressionante quanto poco si discuta degli esiti di questa agenda verde e delle premesse che l’hanno motivata: le fosche previsioni secondo cui il riscaldamento globale porterà alla fine del mondo.
Sintomatico di questa colpevole, colpevolissima superficialità dell’opinione pubblica italiana è che due libri controcorrente, firmati da autorevoli penne, siano stati pubblicati negli USA tra 2020 e 2021, ma che solo uno abbia trovato un’edizione italiana – e l’abbia fatto senza suscitare alcun dibattito, malgrado l’attualità e pregnanza dell’argomento.
Vediamo dunque di darne conto al lettore, illustrando che cosa ci dicano queste due opere.
Michael Shellenberger vs Greta&Co.
La prima è Apocalypse never. Why environmental alarmism hurts us all di Michael Shellenberger, edito in America da HarperCollins nel 2020 e tradotto in italiano da Marsilio nel 2021 col titolo L’apocalisse può attendere.
Shellenberger, di formazione antropologo, è un nome “pesante” nell’ambientalismo americano. Nel 2008 la rivista “Time” lo indicò tra i 30 “eroi dell’ambiente”. Quest’anno si è presentato alle elezioni per il governatore della California giungendo terzo, pur in assenza di un’affiliazione partitica. Ha pubblicato editoriali su “New York Times”, “Washington Post” e “Wall Street Journal”. Ha animato diverse ONG ambientaliste. Da ormai un ventennio è però critico del filone dominante dell’ambientalismo.
Apocalypse never è probabilmente il libro dove meglio ha spiegato le ragioni di tale avversione. A suo avviso, quella genia d’ambientalisti che va da Greenpeace a Greta Thunberg nasconde, dietro la ben nota patina verde, altre motivazioni ideali di fondo: l’anticapitalismo, il malthusianesimo, l’anelito cripto-religioso che induce a voler vedere l’imminente apocalisse per sentirsi parte di qualcosa di grande.
Lo sviluppo economico fa bene all’ambiente
La modernità e la crescita economica – ci spiega Shellenberger – sono un toccasana per l’ambiente: l’urbanizzazione, l’agricoltura intensiva, i materiali sintetici hanno permesso la riforestazione e salvato specie animali (come tartarughe, elefanti e balene) da un’estinzione che pareva certa. Al contrario, crociate ambientaliste come quella contro la plastica hanno il solo effetto di dover tornare a depredare la natura per sostituirla: avete presente le confezioni in plastica che stanno sparendo dai nostri supermercati, a tutto vantaggio di quelle in carta – per produrre le quali bisogna abbattere alberi? Ecco; e produrre buste di carta o bottiglie di vetro in luogo dei corrispondenti in plastica emette pure più CO2. Le bioplastiche, pur essendo più biodegradabili, sono meno riutilizzabili e riciclabili e dunque, alla fin fine, si finisce per doverne produrre di più, aumentando rifiuti, consumo di energia ed emissioni.
La penna di Shellenberger smonta impietosa molti miti dell’ambientalismo: dall’Amazzonia “polmone della Terra” (in realtà l’ossigeno che produce lo consuma da sola: il 60% nella respirazione delle piante, il 40% a opera dei microbi) alla deforestazione del globo (negli ultimi 35 anni la crescita di alberi ne ha superato la perdita), dal pericolo della plastica negli oceani (studi recenti rivelano che il suo degradarsi è molto più veloce di quanto pensassimo e si può ulteriormente velocizzarlo con particolari additivi) a quello dell’inquinamento nell’aria (dal 1950 la qualità dell’aria nei Paesi sviluppati è migliorata notevolmente, grazie a nuove tecnologie per bruciare il carbone, alla transizione al gas naturale e ai veicoli ecologici).
La vera scelta green? L’energia nucleare
Una delle storiche battaglie di Shellenberger è quella a favore del nucleare, inviso invece alla maggior parte degli ambientalisti. L’autore californiano ci spiega come l’avanzamento dell’uomo e del suo tenore di vita sia avvenuto grazie alla transizione da fonti a minore densità energetica (energia per unità di volume) a fonti a maggiore densità: dal legno, dunque, al carbone e poi a petrolio e gas. L’aumento dell’efficienza energetica significa minore devastazione del suolo (per il legno devi tagliare le foreste, per il carbone scavare una miniera, per il petrolio un pozzo) e minore emissione di CO2. Il passo successivo, ci spiega Shellenberger, sarebbe il nucleare, ossia una fonte energetica ancora più efficiente e pulita. Ma qui è subentrata l’opposizione ideologica: gli ambientalisti preferiscono le rinnovabili, ossia tornare a usare la forza del sole o del vento, come in epoca pre-industriale. Passando dalla densità di 2000-6000 watt/m2 delle centrali a gas e nucleari ai 50 watt/m2 di quelle solari.
L’energia solare ed eolica è però inaffidabile e imprevedibile: il vento spesso non soffia, il sole spesso è coperto dalle nubi (oltre a non esserci di notte). Il suo utilizzo nel mix energetico fa aumentare di molto il costo dell’elettricità perché richiede il supporto integrale di impianti a gas (per supplire ai momenti in cui vento e sole sono assenti), nuove ed estese linee elettriche (una centrale eolica richiede 450 volte più terreno di una a gas), personale e materiale extra per conduzione e manutenzione (una centrale solare rispetto alla nucleare richiede 16 volte più materiale e produce 300 volte più rifiuti – contenenti sostanze tossiche ad oggi smaltite seppellendole nei Paesi poveri).
Immagazzinare l’energia prodotta con le rinnovabili per disporne anche quando mancano vento e sole richiederebbe un numero irrealistico di batterie: si è calcolato che con 900 miliardi di dollari si costruirebbero abbasta centri di stoccaggio per alimentare la rete elettrica degli USA …per quattro ore. Un ipotetico passaggio integrale degli USA a solare ed eolico richiederebbe una spesa, in sole batterie, di 23.000 miliardi (in un anno l’intero bilancio federale è di 6/7.000 miliardi). Senza contare l’utilizzo del suolo: oggi il sistema energetico americano richiede lo 0,5% di quello nazionale; se si passasse interamente alle rinnovabili, servirebbe una quota compresa il 25% e il 50%.
Il nucleare è più competitivo delle rinnovabili. Lo dimostra il fatto che, tra 1965 e 2018, a livello mondiale siano stati investiti 2000 miliardi di dollari nell’energia nucleare e 2300 in quella solare ed eolica: eppure, alla fine del periodo, la produzione di quella nucleare risultava il doppio di quella delle rinnovabili.
Perché gli ambientalisti si oppongono al nucleare? Follow the money…
Il nucleare è, insomma, offre la sola opportunità di cancellare carbone, petrolio e gas dalle nostre vite. Ma allora perché gli ambientalisti gli si oppongono in maniera tanto accanita? È forse per la sua pericolosità? Gli incidenti alle centrali nucleari hanno provocato un numero di vittime molto basso, se paragonato a quelle provocate da incidenti a pozzi petroliferi, gasdotti o dighe. Il nucleare, evitando le emissioni venefiche proprie di fossili e biomasse, salva anzi innumerevoli vite. È solo la disinformazione degli anti-nuclearisti a far sì che l’opinione pubblica sia falsamente convinta del contrario; ma tale disinformazione serve anche a spingere per una regolamentazione sempre più ossessiva del settore, il cui scopo è rendere il nucleare troppo costoso per continuare a surclassare le rinnovabili.
Shellenberger fa due ipotesi per spiegare l’apparentemente insensata opposizione degli ambientalisti al nucleare. La prima, presentata con ampia documentazione relativa ad alcune delle maggiori ONG ecologiste d’America, è – molto semplicemente – che gli ambientalisti sono finanziati da miliardari che guadagnano dall’energia fossile. Mentre il nucleare potrebbe rimpiazzare gli idrocarburi, gas e petrolio rimarranno sempre necessari a sopperire le carenze strutturali di solare ed eolico. A dispetto delle leggende metropolitane che vorrebbero le major petrolifere indaffarate a finanziare il “negazionismo del cambiamento climatico”, oggi le organizzazioni che spingono per la transizione energetica alle rinnovabili (ma non al nucleare) incassano di gran lunga di più rispetto a quelle critiche dell’agenda “verde”. Agenda che, del resto, può essere fruttuosa per molti: quando il Presidente Obama spese 150 miliardi per il suo Green New Deal, una cospicua fetta finì in contributi a fondo perduto per miliardari che gli avevano finanziato la campagna elettorale.
Ambientalismo, neo-malthusianesimo e culto della morte
La seconda ipotesi di Shellenberger è più concettuale e richiama al bisogno degli ambientalisti di dare un senso alla propria vita, vedendosi come salvatori del mondo. L’ambientalismo va interpretato come la religione dominante delle élites: la fede in un ordine invisibile (la natura), un senso alla vita individuale e collettiva (salvare il pianeta), la divisione dell’umanità in buoni e cattivi (ambientalisti contro “negazionisti climatici”), una casta sacerdotale incaricata dei sermoni moralizzatori (gli scienziati). Se una facile soluzione al problema contro cui lottano fosse a portata di mano, il loro ruolo ne sarebbe enormemente sminuito. Ecco perché la soluzione più ovvia – il nucleare – è come fumo negli occhi degli ambientalisti. La psicologia – se non la psichiatria – spiegherebbe dunque questo paradossale rovesciamento dei termini: il problema che dicono di combattere diviene la loro ragione di vita e, come tale, è vitale che continui a sussistere. L’ambientalismo è un culto della morte che non può fare a meno dello spauracchio dello sterminio.
Nel secondo Dopoguerra, il problema alla moda era quello del sovra-popolamento. I neo-malthusiani ne dipingevano un quadro a tinte fosche, quasi apocalittiche. Ma quando la crescita della natalità raggiunse il picco massimo e cominciò a scendere, molti neo-malthusiani di spicco – narra Shellenberger nel suo libro – continuarono a propagandare la medesima ricetta (ossia la decrescita di nascite e consumi), coi medesimi accenti millenaristici, solo indicando nel clima il nuovo limite strutturale alla civiltà umana. È il caso di Bill McKibben, primo divulgatore della versione apocalittica del cambiamento climatico col suo libro del 1989 The end of nature. In esso mutuava il programma neo-malthusiano del decennio precedente, invocando lo stop della crescita economica, lo “sviluppo sostenibile” e la redistribuzione della ricchezza dai Paesi ricchi a quelli poveri. In nome dello “sviluppo sostenibile”, nei trent’anni successivi le ONG sono riuscite a bloccare i finanziamenti alla modernizzazione agricola, all’industrializzazione e all’elettrificazione del Terzo Mondo, con la scusa di “non danneggiare l’ambiente”.
L’apocalisse è una fake news
Davvero si trattò solo di una scusa, oppure era ed è una necessità ineluttabile? – potrebbe chiedersi il lettore. In fondo, se davvero il mondo è avviato verso un cataclisma, verso un’autentica fine del mondo, come denunciano gli ambientalisti alla Greta Thunberg, allora ogni misura di contrasto è lecita e giustificata. Anche quella che provoca lo sterminio di uccelli e insetti (come le pale eoliche) o il sottosviluppo di ampie regioni del globo (come lo “sviluppo sostenibile”). E qui entra in gioco un altro argomento fondamentale di Apocalypse never (quello che dà il titolo all’opera): gli scenari apocalittici prospettati da organizzazioni come Extinction Rebellion (quelli dei blocchi stradali, per intenderci), secondo cui “ci saranno miliardi di morti e il collasso della civiltà”, sono inventati di sana pianta. Nessuno studio, nemmeno le previsioni peggiori del IPCC (International Panel on Climate Change, che dal 1988 in sede ONU sintetizza i risultati della scienza climatologica), supportano una simile conclusione. La teoria della sesta estinzione di massa, che sarebbe provocata dall’uomo, fonda i suoi calcoli sul modello areale di specie la cui validità è stata confutata da un decennio; si scontra, inoltre, col fatto storico che, dal 1500 a oggi, solo lo 0,8% delle specie esistenti si sia estinto.
L’Autore californiano documenta come gli studiosi abbiano rilevato numerosi errori nei report dell’IPCC che si sono susseguiti nel corso degli anni. Richard Tol, uno degli economisti più quotati al mondo ed esperto di economia dell’energia e del clima, nonché tra gli autori dell’IPCC, ha denunciato come questi ultimi facciano a gara nell’essere i più catastrofisti, per aumentare le chances che i media citino proprio la loro parte di report. Come se non bastasse, è lo stesso IPCC – che è un organo intergovernativo, non accademico – a stilare il sommario del report nel tono più apocalittico possibile. Ciò per le pressioni politiche che riceve: come rivelato da Tol, i Paesi europei sono più attivi nel pretendere allarmismo, al fine di poter giustificare le misure di taglio delle emissioni agli occhi dell’opinione pubblica.
Le critiche di Michael Shellenberger all’IPCC e alla visione apocalittica del cambiamento climatico potrebbero essere respinte, in maniera pregiudiziale, con l’argomento che a muoverle non è un climatologo ma un antropologo; un attivista di chiara fama, ma non uno scienziato di mestiere. Ed è qui che entra in gioco il secondo titolo che vogliamo portare all’attenzione del lettore, opera di un accademico e uomo di scienza la cui competenza non può essere sminuita e ignorata. La trattazione di quest’opera sarà oggetto della seconda parte dell’articolo.
(continua)
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.
Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).
Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.
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