Qualche settimana fa il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha dichiarato che l’Azerbaigian conduce una “politica palese di pulizia etnica” e obbliga gli armeni che vivono nella regione del Nagorno Karabakh ad andarsene.
Da un paio di mesi gli azeri sostengono arbitrariamente di voler tutelare l’ambiente e bloccano il corridoio di Latcin, un corridoio umanitario strategico che collega l’Armenia alla regione del Nagorno Karabakh abitata da armeni. A causa del blocco, nella regione montagnosa con i circa 120.000 abitanti iniziano a scarseggiare cibo, medicine e carburante.
Il primo ministro armeno ha dichiarato:
Questa è ovviamente una politica palese di pulizia etnica. E devo dire che, se fino ad ora la comunità internazionale è stata scettica in merito alle nostre preoccupazioni riguardanti le intenzioni dell’Azerbaigian di sottoporre gli armeni del Nagorno Karabakh alla pulizia etnica, ora vediamo che questa percezione si rafforza lentamente ma costantemente nella comunità internazionale. In base alle informazioni di cui disponiamo, il piano di Baku è il seguente: esercitare massima pressione economica e psicologica in Nagorno Karabakh e poi aprire il corridoio (di Lacin) per diversi giorni nella speranza che gli armeni del Nagorno Karabakh, la gente del Karabakh lascino in massa le loro case. Circa 6.000 bambini degli asili, circa 19.000 studenti delle scuole medie e 6.800 studenti universitari sono privati da circa un mese di uno dei diritti più importanti del 21esimo secolo: il diritto allo studio, perché gli asili, le scuole e le università sono chiuse da un mese in Nagorno Karabakh.
L’Italia e in nostro parlamento non sono rimasti sordi a quanto accade nella regione caucasica, tanto è vero che il giorno 24 gennaio la Commissione Esteri della Camera ha invitato per un’audizione l’ambasciatrice della Repubblica di Armenia in Italia, Tsovinar Hambardzumyan, che si è detta fiduciosa di collaborare nel prossimo futuro come rappresentante di una nazione amica dell’Italia che, come l’Italia, può vantare antichissime radici, valori comuni e secolari relazioni bilaterali.
Oggi Armenia e Italia godono di un buon livello di dialogo politico, con visite reciproche e collaborazioni multilaterali in campo economico. Nonostante la condanna della storia (il genocidio degli armeni da parte turca), si deve purtroppo constatare come una politica e una metodologia di persecuzione da parte di Turchia e Azerbaigian verso gli Armeni sia ancora pienamente in atto. Come indicato, dallo scorso 12 dicembre, la regione del Nagorno-Karabakh è bloccata dall’Azerbaigian. Al momento, i cosiddetti “attivisti ambientalisti” su istruzione del governo azero stanno bloccando il Corridoio di Lachin, l’unico collegamento del Nagorno-Karabakh con l’Armenia e il resto del mondo.
La crisi umanitaria in Nagorno Karabakh peggiora ogni giorno che passa. La scarsità di beni di prima necessità, cibo e medicinali si fa sempre più evidente. Il pericolo di carestia è tangibile e la situazione è aggravata dal taglio del gas (in pieno inverno), della rete elettrica e della connessione a Internet operato dal governo di Baku appoggiato da Ankara.
Alcuni osservatori confermano che anche gli asili nido e le scuole sono chiuse, gli ospedali hanno sospeso le operazioni chirurgiche e non c’è più latte in polvere per i bimbi.
Bisogna subito ricordare che con il termine genocidio armeno, meglio conosciuto come olocausto degli armeni o massacro degli armeni, si indicano le deportazioni ed eliminazioni di armeni perpetrate tra il 1915 e il 1919 dai turchi (allora Impero Ottomano) che causarono circa 1,5 milioni di morti. Sono passati cento anni dal genocidio ma gli armeni in tutto il mondo non hanno dimenticato e, anzi, non possono dimenticare.
Gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Segretario Generale delle Nazioni Unite e più di una dozzina di Paesi hanno già chiesto all’Azerbaigian di sbloccare la strada per il Nagorno-Karabakh. Da ultimo il Parlamento Europeo, a larghissima maggioranza, ha votato una risoluzione in tal senso. In risposta a queste sollecitazioni internazionali, il Presidente azero non ha esitato a confermare che gli “attivisti” che hanno bloccato il collegamento lo hanno fatto su sua istruzione aggiungendo che chi non vuole essere cittadino dell’ Azerbaigian può tranquillamente andarsene e il corridoio verrà aperto in caso decidessero di abbandonare la loro terra.
Il conflitto del Nagorno-Karabakh da 30 anni costituisce la sfida principale per la sicurezza e per la stabilità della regione caucasica e ora presenta una serie di minacce, di natura politica e militare per l’Armenia, per l’intera regione e di conseguenza per la stabilità dell’Europa stessa.
Le radici di questo conflitto risalgono all’epoca sovietica. Il Nagorno Karabakh o Artsakh, storicamente armeno, fu incluso con la forza nella Repubblica dell’Azerbaigian come una regione autonoma, per decisione del dittatore comunista Stalin nel 1921. Questo periodo di 70 anni “sovietici”, l’unico lasso temporale in cui il Nagorno-Karabakh ha fatto parte dell’ Azerbaigian, è stato segnato da massacri, deportazioni, discriminazioni e altre forme di intolleranza nei confronti degli Armeni. Basti solo pensare che nel 1920 nel Nagorno-Karabakh abitavano circa 300 mila persone, oltre il 95% delle quali erano armeni; nel 1988 ne erano rimasti solo 140.000 (oggi ne sono rimasti solo 120.000).
Nel 1988, nell’ultimo periodo di esistenza dell’Unione Sovietica, gli armeni del Nagorno-Karabakh iniziarono a protestare e a rivendicare diritti che furono loro sempre negati. L’Azerbaigian, non gradendo quelle proteste, rispose con una repressione ai danni degli armeni che vivevano nelle città di Sumgait, Baku e Kirovabad. Furono proprio i massacri di Sumgait ad avere un ruolo decisivo nello scoppio del conflitto del Nagorno-Karabakh in un contesto che tristemente evocava il passato genocidio turco.
Nel 1991 con il collasso dell’ Unione Sovietica al posto dell’ex repubblica sovietica azera, dunque, si formarono due entità statali separate: la Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica del Nagorno-Karabakh.
In risposta, l’Azerbaigian lanciò una guerra su larga scala che durò dal 1992 al 1994, in cui ci furono più di 30.000 caduti da entrambe le parti. Gli Armeni, nella lotta in difesa della libertà, riuscirono a resistere, a mantenere l’indipendenza del piccolo Stato appena formatosi e a garantirne la sicurezza prendendo il controllo di alcuni territori circostanti.
L’Armenia, la cui maggioranza della popolazione è cristiana monosifita orientale, è diventata indipendente in condizioni terribilmente difficili, con il crollo dell’Unione Sovietica, l’economia smantellata, il cambiamento del sistema politico, il blocco da parte delle mussulmane Azerbaigian e Turchia. Inoltre, l’intera Armenia settentrionale fu rasa al suolo da un devastante terremoto nel 1988, con 25.000 vittime.
Per quanto riguarda la guerra dei 44 giorni del 2020, la stessa è stata una guerra devastante perché sono state usate armi di nuova generazione, vi è stato un coinvolgimento diretto della Turchia con i suoi aerei e i droni Bayraktar (gli stessi “venduti” e non ‘’donati” all’Ucraina). L’Azerbaigian pare abbia fatto largo uso di armi proibite dalle convenzioni internazionali come bombe a grappolo e al fosforo bianco; inoltre, si ha il sospetto che la Turchia abbia reclutato migliaia di mercenari (probabilmente ex terroristi Isis) trasferendoli in Azerbaigian per combattere contro gli Armeni, cosa che Ankara aveva certamente fatto durante la guerra civile in Libia. L’ultimo conflitto è durato, appunto, 44 giorni e il 9 novembre 2020, con la mediazione della Federazione Russa, è stata firmata una dichiarazione trilaterale che ha fermato la guerra.
La suddetta dichiarazione, tuttavia, non ha portato la pace regionale e, ad oggi, l’Azerbaigian, approfittando della situazione internazionale ancora incerta e dell’appoggio di Ankara, continua la sua politica aggressiva attraverso infiltrazioni e attacchi anche nel territorio dell’Armenia.
Purtroppo, quanto sta accadendo dimostra come la leadership dell’ Azerbaigian non sia in alcun modo interessata all’instaurazione della pace e della stabilità nel Caucaso meridionale. Il Presidente dell’Azerbaigian – forte del riconoscimento di “partner energetico affidabile” per l’Europa – persegue la sua politica di aggressione all’Armenia con la complicità turca.
In conclusione, bisogna ricordare che il Nagorno-Karabakh non è solo un territorio ma è un popolo pronto a seguire la formula europea per la soluzione del problema, ma bisognerebbe porre fine immediatamente al blocco del Corridoio di Lachin e fornire l’accesso al Nagorno-Karabakh alle organizzazioni internazionali.
Certamente, va sottolineato che ci sono evidenti freni economici a procedere a una condanna di Baku perché la bozza d’intesa firmata tra UE e Azerbaigian prevede l’impegno azero a raddoppiare la capacità del Corridoio meridionale del gas, in modo da trasportare almeno 20 miliardi di metri cubi ogni anno alla UE entro il 2027. Quanto precede assicurerà un contributo agli obiettivi di diversificazione indicati dal piano “RePowerEu”, ma soprattutto faciliterà il distacco dell’Europa dal gas russo. Infatti, l’ Azerbaigian ha già aumentato le consegne di gas alla UE nel 2022.
L’importante è che nessuno possa dire: “Non lo sapevo” quando, per liberarci dal ricatto per la carenza energetica susseguente all’aggressione russa all’Ucraina, ci troveremo a testimoniare di aver sottovalutato i danni causati da un altro aggressore produttore di quel gas che tanto interessa alle economie occidentali.
Senior Fellow del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Generale di Brigata (aus.) dell'Esercito Italiano, membro del Direttorato della NATO Defence College Foundation. Per anni direttore della Middle East Faculty all'interno del NATO Defence College.
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