Le attuali migrazioni sulla rotta del Mediterraneo Centrale, più che da una reale necessità che sorga spontanea alla ricerca di una vita migliore lontano da guerra e povertà, appaiono determinate da fattori esterni che intervengono sia mediante finanziamenti appositi che diffondendo ad arte, tra i giovani dei Paesi di provenienza, una falsa e ingannatoria narrazione di denaro e sesso facile in paradisi a portata di mano (i Paesi di destinazione) con eterno welfare gratuito; soprattutto in quelli più “accoglienti” e permeabili, per lassismo dei controlli e favoreggiamento ideologico. Ci sono ormai testimonianze cospicue e denunce da parte delle autorità locali avverso imponenti campagne di reclutamento di candidati alla migrazione clandestina, cioè al di fuori dei canali legali dei visti consolari e dell’offerta di lavoro anche stagionale.
Basti pensare al paradossale storno di fondi destinati alla cooperazione italiana per lo sviluppo internazionale, che ormai includono, quale componente importante, il supporto alla diaspora ancorché clandestina e non programmata. Come a dire che lo sviluppo di Paesi poverissimi, quali Sudan ed Eritrea, passi anche attraverso il favoreggiamento del drenaggio di giovani risorse in piena capacità lavorativa che, nel migliore dei casi, vanno a stabilirsi e guadagnare altrove, magari inviando poi in patria rimesse periodiche. In altre parole, il completo sovvertimento di quelle che sono state per mezzo secolo le colonne portanti del pensiero di cooperazione, cioè promuovere lo sviluppo autonomo dei Paesi e la creazione di opportunità di lavoro in patria, anche per contrastare il fenomeno della crescita demografica incontrollata, in parallelo alla fuga di braccia e cervelli.
Il fatto stesso della migrazione a grandi distanze continentali (Africa Sub-Sahariana), a volte enormi e pluri-continentali (Bangladesh), testimonia al di là di ogni dubbio la matrice non legata a fuga da eventi transitori, quali conflitti e carestie, in cui invece le persone migrano verso destinazioni vicine, appena oltre i confini o anche all’interno del loro Paese (IDP- Internally Displaced Persons); con la speranza di tornare, alla prima favorevole occasione, alle proprie case e ai propri cari lasciati alle spalle.
L’esempio contrario eclatante e comparativo che ci si offre oggigiorno è quello dei profughi ucraini di guerra (e prima di loro i siriani): tutta gente spinta da reali conflitti – famigliole o solo madri con prole, specialmente data la coscrizione obbligatoria maschile in età di leva militare – e che comunque torna non appena le notizie dalla madre-patria volgano al miglioramento o anche alla semplice stabilizzazione. Chi scrive è stato diretto testimone dell’imponente flusso di ritorno dei profughi ucraini su tratte ferroviarie affollatissime, soprattutto nella direzione relativamente più breve Cracovia – Lviv – Kiev, ma anche da Ungheria, Romania e Slovacchia attraverso la rotta ferroviaria o stradale trans-carpatica. Trattasi comunque di circa 20 ore di treno con diverse soste e cambi.
Anche nel caso dell’Ucraina, purtroppo, non mancano spiacevoli episodi di falsi profughi, ossia di persone agiate (e in tal caso la presenza di giovani maschi è indicativa della capacità corruttiva per superare i controlli alle frontiere), che viaggiano con veicoli di grossa cilindrata (frequenti le fiammanti Porsche Cayenne, automobili dal valore prossimo ai 200mila euro) e che non hanno alcun bisogno di adire l’assistenza ai rifugiati, ma lo fanno per tracotanza; e ostentatamente usano cibo e servizi, trasporti gratuiti, e finanche esenzione da multe per sosta vietata, che Governi ottusi e scialacquatori concedono, sfidando il malcontento che si genera nelle popolazioni riceventi. Pensionati al minimo in Repubblica Ceca o altrove, che magari nemmeno possiedono un veicolo malandato, osservano attoniti grossi SUV in sosta vietata indecentemente tollerati, quasi rispettati. Anche di questo sono stato recentemente testimone oculare a Praga.
Una domanda che ormai parecchi europei iniziano a porsi – salvo i fortunati ungheresi che godono di un governo più saggio – è per quale motivo decisioni che hanno un tale impatto sul presente e, soprattutto, sul futuro di intere nazioni e generazioni, non trovino politici favorevoli alla proposta di sottoporre a referendum popolare le scelte di politica migratoria più vicine al sentimento comune della gente.
Perché mai tali decisioni – si chiede la gente – assai più importanti e impattanti, ad esempio, di quelle relative al divorzio, al libero aborto o ai matrimoni omosex, sono interamente lasciate alla discrezione di ONG e scafisti criminali che ci lucrano, di politici ideologizzati o corrotti e vengono comunque sottratte allo scrutinio del popolo sovrano? Questo è un mistero che ancora avvolge la bizzarra contemporaneità che stiamo vivendo.
Medico tropicalista esperto di sanità pubblica internazionale, ha lavorato in 5 continenti, sempre in posizioni apicali, con la Cooperazione Italiana allo Sviluppo del MAECI, con la Commissione Europea (ECHO) e con le Nazioni Unite (WHO-OMS). Ex professore a contratto all’Università di Trieste in Cooperazione allo sviluppo e geopolitica della salute, nonché Guest Speaker al Master MIHMEP della SDA/Bocconi di Milano.
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