di Lorenzo Bernasconi

Geneviève Lhermitte è stata uccisa con un’iniezione letale il 28 febbraio scorso nell’ospedale di Montigny-le-Tilleul, in Belgio. Riportano la notizia sia il “Corriere” che “Repubblica”, tracciando un veloce ritratto della donna che, nel 2007, uccise i suoi cinque figli (di età compresa tra i 3 e i 14 anni) per poi tentare di suicidarsi. Da allora, la Lhermitte ha sempre vissuto rinchiusa, prima in carcere, poi in un ospedale psichiatrico.

Ciò che le due principali testate italiane lasciano sullo sfondo, ma che invece si può facilmente leggere tra le righe della stampa francofona, è la storia di una donna psicologicamente fragilissima e di un rapporto travagliato col marito Bouchaïb Moqadem, marocchino dalle idee profondamente radicate nella cultura di origine. Sul travagliato ménage familiare mise l’accento, seppur attraverso delle metafore di non semplicissima lettura, il film di Joachim Lafosse À Perdre la raison, uscito nel 2013 e liberamente ispirato alla vicenda della Lhermitte.

Difficile, è chiaro, empatizzare con una madre che ha quasi sterminato la propria famiglia. Tuttavia, proprio l’enormità e l’assurdità del suo folle gesto impongono una riflessione profonda; quanto più un evento appare incomprensibile e privo di senso, tanto più è infatti necessario sottoporlo a un’analisi razionale e scrupolosa, senza abbandonarsi a reazioni puramente emotive.

La legge belga non contempla la pena di morte; tuttavia, prevede che un paziente possa essere sottoposto a eutanasia, se lo desidera, qualora sia affetto da una sofferenza fisica o psicologica “costante, insopportabile e ineliminabile”.

La Lhermitte ha chiesto di morire, certo. Viene però da chiedersi quanto possa essere considerata lucida e consapevole una simile richiesta, quando essa provenga da una donna rinchiusa da anni in un ospedale psichiatrico, con un lungo passato di problemi psicologici e che porta sulla spalle il dolore e il senso di colpa per un delitto orribile.

Qualcuno potrebbe pensare che, lucida o meno, in fondo la Lhermitte meritasse di morire. Tuttavia, se riteniamo la morte una punizione ragionevole per un omicidio plurimo commesso in un momento di buio da una malata mentale che ha tentato poi di suicidarsi, come possiamo tollerare che gli artefici dell’attentato di Bruxelles che, nel marzo 2016, causarono oltre 80 morti – nonché decine di mutilati e invalidi permanenti – possano invece cavarsela con l’ergastolo?

Se concepiamo l’eutanasia della Lhermitte come una sorta di contrappasso per i suoi delitti, tale punizione appare immediatamente iniqua, in quanto sproporzionata rispetto alla pena inflitta a terroristi macchiatisi di crimini ancor più gravi. Se invece la consideriamo come una forma di rispetto per il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, risulta evidente la contraddizione con la travagliata storia psichiatrica della Lhermitte, che ben difficilmente può essere considerata in grado di prendere decisioni libere, consapevoli e razionali.

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Com’è possibile, quindi, che nonostante tutto la commissione medica deputata a esaminare l’istanza della donna abbia dato il via libera all’eutanasia?

Temo che la risposta vada cercata nei continui tagli che stanno di fatto smantellando il sistema del welfare nella maggior parte dei Paesi europei. Da supposta “dolorosa necessità”, la politica dei tagli è ormai diventata una scelta ideologica, rivendicata apertamente in nome di un presunto “efficientamento” e dell’ormai mitologica “competitività del sistema Paese”.

Le conseguenze sono emerse nel modo più tragico con la pandemia, che ha evidenziato tutti i limiti dei sistemi sanitari europei e di quello italiano in particolare. Tuttavia, ancora oggi, in quasi tutta Europa la politica spinge unicamente sui vaccini, anziché investire su ospedali e medicina territoriale. Il messaggio è chiarissimo: la sanità universalistica costa troppo, quindi spetta al cittadino fare di tutto per non pesare sul sistema.

Poco importa se la popolazione aumenta di numero – soprattutto a causa dell’immigrazione – e se l’età media cresce costantemente, i posti letto saranno sempre di meno, giacché gli Stati europei ritengono di dover concentrare la spesa su altri fronti (oggi in particolare sulle armi da inviare in Ucraina, ma di fatto si trova sempre qualcosa di prioritario rispetto alla sanità o alla scuola).

In questo quadro, appare evidente che pazienti cronici come la Lhermitte, bisognosi di cure e di sorveglianza a vita, rappresentano un costo che lo Stato (il Belgio, in questo caso) non vuole più sopportare: perciò, perché non proporre loro la “dolce morte” e togliersi un fastidio ma, soprattutto, eliminare un centro di costo?

Con tanti saluti al diritto alla vita sancito dall’art. 2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. È il mercato, bellezza!

Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, ha lavorato come consulente presso Parlamento Europeo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Camera dei Deputati e Ministero dello Sviluppo Economico. Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano.