di Andrea Bandelli

Nel testo della delega fiscale ancora in fase di completamento sono state finalmente inserite importanti misure che costituiscono uno dei 5 pilastri del Piano straordinario per il rimpatrio produttivo e societario elaborato dal Centro Studi Machiavelli. Le misure previste nella delega fiscale grazie anche al grande lavoro dell’ottimo ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e del dipartimento Economia della Lega nella sua interezza ed in particolare del responsabile prof. Alberto Bagnai e di Alberto Luigi Gusmeroli (uno dei due relatori della delega, dottore commercialista e responsabile unità fisco del Dipartimento) per favorire il reshoring sono sostanzialmente due: una significativa riduzione dell’ aliquota delle imposte dirette sul reddito per quei soggetti che decidono di riportare in Italia una parte o la totalità delle produzioni localizzate all’estero ed una riduzione del periodo fiscale minimo per l’ammortamento dell’avviamento relativo alle attività e alle aziende riportate in patria. Queste misure dovranno ovviamente trovare le opportune e adeguate coperture nella prossima legge di bilancio, ma i benefici per il nostro Paese sono talmente tanti e rilevanti, che vale sicuramente la pena trovarle.

Ma vediamo di contestualizzare e spiegare perché il reshoring in questa fase storica è così importante e la sua attuazione irrinunciabile per l’Italia, per la tenuta dei conti pubblici e per la sostenibilità a medio lungo temine del nostro debito che ricordiamo ammonta ad oltre 2.750 miliardi di euro e con i tassi di interesse elevati diventa sempre meno sostenibile in termini di costi per interessi passivi. Da qui la necessità di aumentare il PIL e la base imponibile fiscale per aumentare le entrate tributarie abbassando progressivamente ove possibile le aliquote ordinarie.

Reimportare le nostre industrie

In questi ultimi anni il sistema economico del nostro Paese si è trovato ad affrontare prima il lock-down generalizzato e prolungato a causa della pandemia e poi la guerra in Ucraina che hanno avuto e avranno conseguenze molto pesanti sulla tenuta del nostro tessuto imprenditoriale, sulla sua capacità di preservare l’integrità delle catene del valore e sulla capacità delle nostre aziende di mantenere adeguati livelli produttivi ed occupazionali. Questi due eventi hanno reso evidente la necessità, sia per le imprese che per gli Stati Nazionali di concentrare l’attenzione sull’analisi dei rischi e delle criticità conseguenti alle delocalizzazioni di singole aziende, di intere filiere produttive o parti di esse. I principali rischi e le maggiori criticità della delocalizzazione si possono così sintetizzare: scarsità delle materie prime e semilavorati, dilatazione tempi consegna e aumento costi della logistica, probabili interruzioni delle catene di approvvigionamento delle filiere, impossibilità di garantire la sicurezza nazionale in settori strategici. Tra le situazioni recenti in cui si sono ravvisate queste criticità possiamo ricordare l’interruzione in molti settori delle forniture di componenti e semilavorati alle aziende nazionali con relative interruzioni delle produzioni.

È proprio in questo contesto che diversi governi in ambito europeo ed occidentale hanno messo a punto misure e strategie volte ad incentivare le industrie locali, che nei decenni passati avevano delocalizzato, a riportare singole unità produttive, intere filiere di produzione o parti di esse in patria, con l’obiettivo di accrescere sia l’occupazione diretta sia quella dell’indotto, così mitigando l’annoso e diffuso problema dei tassi di disoccupazione e conseguentemente incrementare il Prodotto Interno Lordo nazionale, aumentando contemporaneamente la resistenza della catena di rifornimento agli shock esterni di qualsiasi tipo.

Rimpatrio produttivo e societario: un tonico per l’Italia

L’Italia è un Paese manifatturiero e si comprende quindi come sia opportuna la progettazione e la realizzazione in tempi relativamente brevi di un consistente piano per il rimpatrio produttivo che riporti sul territorio nazionale produzioni di beni e servizi precedentemente delocalizzate. Contemporaneamente si dovrebbe procedere anche al cosiddetto rimpatrio societario, che coincide solo parzialmente con l’attrazione di investimenti esteri. Si tratta infatti di una fattispecie ibrida relativa ad una impresa, detenuta da cittadini italiani o con caratteristiche di spiccata interazione con le filiere produttive presenti nel nostro Paese o semplicemente a vocazione “italiana”, che decide di ricollocare la propria sede legale e fiscale e, requisito indispensabile, alcune funzioni direzionali e centrali come “ricerca & sviluppo” e “marchi e brevetti” per poter beneficiare dell’accesso al sostegno all’export del Sistema Italia, oltre a tutti i free trade agreement cui l’Italia partecipa. Così facendo una parte del fatturato potrebbe essere ricompreso nel Prodotto Interno Lordo contribuendone alla crescita non organica.

Per l’Italia quindi l’attuazione di una sistematica ed efficace politica di rimpatrio produttivo e societario porterebbe un significativo incremento del PIL e, conseguentemente, a parità di condizioni migliorerebbe il rapporto Deficit/PIL avendo fatto crescere il denominatore, aiutando il Paese con i parametri di Maastricht e nelle complicate negoziazioni in seno alla UE. In particolare si potrebbe rafforzare in modo strutturale l’avanzo primario rendendo più agevole la riduzione e la sostenibilità del debito pubblico italiano.

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Come rimpatriare. L’analisi del Centro Studi Machiavelli

Quanto alle motivazioni, dagli studi emerge che per le imprese è prioritaria sia l’esigenza di assicurare adeguati standard di qualità, sia i differenziali su costo del lavoro e trasporto. Alla domanda su quali motivi potrebbero influenzare in modo determinante ulteriori trasferimenti in Italia le imprese hanno risposto indicando la riduzione della pressione fiscale, specifiche politiche per il mercato del lavoro, le policy di offerta localizzativa, gli incentivi per l’innovazione e per le imprese industriali, in particolare i finanziamenti per l’acquisto di macchinari e politiche per l’offerta di lavoro qualificato (technology skilled workers). Dall’analisi di quest’insieme di dati si evince che oggi la variabile costo del lavoro, che aveva condizionato e favorito la maggior parte delle delocalizzazioni, non costituisce più da sola un elemento determinante nella decisione di fare outsourcing oltre frontiera, anche per la difficoltà di delocalizzare la manodopera made in Italy necessaria a garantire gli standard produttivi italiani, rendendo quindi utopistico pensare di poter riproporre all’estero la straordinaria qualità del made in Italy con un costo del lavoro molto più contenuto.

Proprio in questa logica la proposta politica che possa recuperare sovranità produttiva si caratterizza come strumento innovativo (con oneri limitati e con un impatto economico-finanziario positivo sul bilancio dello Stato) e si articola, secondo l’analisi prodotta dal Centro Studi, su cinque pilastri:

1. Soggetto Pubblico Unico: per un chiaro e semplificato rapporto con la PA (Agenzia entrate, INPS, Regioni, Enti locali, altre agenzie dello Stato per ogni autorizzazione preventiva);

2. Patti fiscali: per la certezza dei rapporti fiscali con agevolazioni e accordi preventivi stabili nel tempo che garantiscano l’attrattività del nostro Paese;

3. Patti previdenziali: per un costo del lavoro che sia competitivo con gli altri paesi UE ed extra UE;

4. Patti territoriali: per l’ordinato sviluppo economico del territorio, il recupero di aree industriali dismesse e l’accesso a strumenti regionali di sostegno alle attività rientrate;

5. Riforma del rito delle imprese: per la chiarezza, la velocità di una giustizia al passo con altre giurisdizioni straniere.

Tutti i pilastri sopra descritti si sostanziano in un pacchetto di misure: a sostegno delle imprese italiane che avevano delocalizzato la propria attività e che manifestano un interesse reale e concreto a far rientrare tutta la produzione in Italia e ne garantiscano il mantenimento per almeno un quinquennio, al raggiungimento di certe condizioni di investimento, di posti di lavoro, di responsabilità sociale e ambientale prorogabile di altri 5 anni (rimpatrio produttivo) ed anche a sostegno delle imprese che decidano di portare la propria sede legale e fiscale oltre ad alcune funzioni direzionali di gruppo quali Ricerca&Sviluppo e/o Proprietà Industriale (rimpatrio societario).

In conclusione il rimpatrio produttivo e societario rappresenta una opportunità ed anche una necessità per il nostro Paese che può valere almeno 4/500.000 nuovi posti di lavoro e 120/150 miliardi di PIL aggiuntivo. Bene quindi che questo governo preveda nella delega fiscale specifiche misure per favorire il reshoring, indispensabili per rendere attrattivo il nostro Paese per chi vuole riportare in Europa la produzione. Tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare per completare un piano come quello proposto dal Centro Studi Machiavelli che consentirebbe davvero all’Italia e al “sistema paese” di essere molto attrattivo e competitivo rispetto ai paesi dell’Europa orientale che fino ad oggi hanno rappresentato  la principale destinazione scelta dalle aziende rientrate.

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Per il Centro Studi Machiavelli è responsabile del programma di ricerca su "Reshoring e rilocalizzazione d'impresa". Laureato in Economia (Università degli Studi di Firenze), Dottore Commercialista, Revisore legale e socio fondatore di uno Studio professionale specializzato in consulenza societaria e fiscalità nazionale ed internazionale.