L’ennesima prova di virtuosismo di Christopher Nolan, Oppenheimer, esce nelle sale contemporaneamente alla riproposizione di un altro capolavoro, Si alza il vento, di Hayao Miyazaki. Tout se tient: i due film infatti rappresentano ciascuno dal proprio punto di vista una riflessione sul destino dell’uomo davanti alla scienza, alla tecnologia e alla propria storia, che altro non è se non l’abbandono dello stato di natura e di felice incoscienza per addentrarsi nella spirale del progresso.
Paradossalmente, mentre il pessimista Miyazaki, pur nella struggente tragicità della vicenda raccontata – la biografia romanzata del padre del caccia Zero, Jirō Horikoshi (1903-1982) – riesce alla fine a scrivere un doppio messaggio di ottimismo, Nolan ci lascia invece con gli incubi di un uomo che era consapevole d’aver distrutto il mondo, in un modo o nell’altro. La riflessione di Miyazaki è lasciata ai dialoghi onirici fra Horikoshi e il suo mentore spirituale, l’ingegnere italiano Giovanni Battista Caproni (1886-1957): quando questi interroga il giovane progettista giapponese dicendogli che gli aerei per quanto meravigliosi sono macchine di morte, ponendogli il dilemma “tu tra un mondo con le piramidi e un mondo senza piramidi, quale preferisci?”, ottiene la risposta di un’irresponsabile innocenza: “io penso di voler progettare splendidi aeroplani”. Nel finale del film, in un cimitero di macchine volanti che rappresenta la catastrofe bellica del Giappone, la bellezza dei caccia Zero, coi loro piloti che salutano Horikoshi e Caproni mentre vanno a raggiungere la processione celeste dei caduti in guerra, riesce a giustificare il peso terrificante portato sulle spalle da chi quegli aerei li ha realizzati. E se la responsabilità collettiva della storia umana è condivisa come un destino ineluttabile, quella dell’individuo invece è riassunta nell’amorevole imperativo “vivi!” che il fantasma della moglie di Horikoshi lascia al vedovo prima di scomparire.
Nolan invece non riesce a lasciare un messaggio d’ottimismo. Né collettivo, con le masse eccitate dalla vittoria in guerra e ignare che sono sotto la medesima spada di Damocle scatenata su Hiroshima e Nagasaki, né individuale, con il protagonista del film torturato dal pensiero d’aver innescato una reazione a catena non solo atomica, ma anche di eventi, che un giorno porterà l’umanità a cancellarsi da sola.
Il film di Nolan è la fedele biografia del “padre della bomba atomica” Robert Oppenheimer (1904-1967), con piccole deviazioni dalla storia reale talmente irrilevanti da essere quasi impercettibili: Oppenheimer che parla di “campi di sterminio” nel 1939, (quando l’Olocausto non era ancora consumato nei lager), il segretario alla Guerra Henry L. Stimson che cancella Kyōto dalla lista delle città da bombardare perché “vi è stato in viaggio di nozze”, una bandiera USA con il numero sbagliato di stelle, la presenza di scienziati afroamericani fra il personale (in realtà tutto bianco) di Los Alamos, Oppenheimer presentato come a capo dell’intero Progetto Manhattan e non solo dei laboratori di Los Alamos, una citazione di Proudhon scambiata per “Il Capitale” di Marx… A latere degli errori, qualche interpretazione del regista e sceneggiatore hanno suscitato piccole perplessità, come quella di voler inserire l’episodio (non storicamente accertato) della mela avvelenata col cianuro lasciata dal giovane protagonista a un suo professore e aver raccontato la storia dello scontro fra Oppenheimer e Lewis Strauss (1896-1974), segretario al Commercio in pectore di Eisenhower e presidente della Commissione per l’energia atomica degli USA, prendendo apertamente parte per lo scienziato. Strauss viene così tratteggiato in maniera decisamente negativa, secondo lo stereotipo liberal che vedeva nel fisico – laico, progressista, membro della sofisticata e libertina upper class, contrario allo sviluppo della bomba H e favorevole alla condivisione delle tecnologie atomiche con l’URSS – un eroe positivo, mentre il politico repubblicano – ebreo molto osservante, conservatore, critico verso i costumi sessuali adulterini di Oppenheimer, sostenitore di una politica di deterrenza e fermezza con l’URSS nonché proveniente da umili origini – il vilain.
Ma la vicenda politica fra Strauss e Oppenheimer risulta quasi d’impaccio al racconto principale, che è ovviamente quello della realizzazione della bomba atomica. E che rappresenta la riflessione di Nolan sul destino dell’umanità. Come per gli aerei di Miyazaki\Horikoshi, anche la fisica nucleare di Nolan\Oppenheimer è accolta con innocenza adolescenziale. La scoperta della reazione a catena nel 1938 viene ricevuta con scene di scomposto giubilo fra gli scienziati, nonostante l’immediata consapevolezza che essa apriva le porte a un impiego militare della disintegrazione dell’uranio. Quando questo impiego arriva e si concretizza vetrificando un pezzo di deserto del Nuovo Messico e poi incenerendo due città giapponesi, nella coscienza di Oppenheimer si fa sempre più strada la consapevolezza di dover sopportare un peso morale indicibile. La giustificazione che egli razionalmente cerca di dare – e darsi – è che l’impiego dell’energia nucleare come arma è inevitabile, ma prima essa avverrà e prima sarà talmente tanto terrorizzante che l’umanità non ne farà più uso. Una sorta di “vaccino” morale. Il prezzo, il vero e proprio sacrificio umano, saranno i 250 mila morti di Hiroshima e Nagasaki e la dannazione della propria coscienza.
Eppure questa spiegazione non è sufficiente a far trovare in Oppenheimer quella triste serenità che guadagna Horikoshi alla fine del lungometraggio di Miyazaki. Nolan calca molto l’accento su un episodio di colore del Progetto Manhattan: l’ipotesi, avanzata da Edward Teller, che un’esplosione nucleare potesse innescare un processo di fusione nucleare dell’idrogeno atmosferico e incendiare l’aria di tutto il pianeta. Questa ipotesi, subito ridotta a una remota possibilità dai calcoli, è molto cara a una certa narrativa sull’epopea di Los Alamos, ma fu assolutamente marginale. Nolan la eleva a paradigma del peccato di hybris commesso da Oppenheimer: il mondo non verrà distrutto da un’unica fiammata nucleare, ma quella stessa prima esplosione innescherà comunque l’apocalisse atomica futura. Oppenheimer sarà oppresso per tutta la vita dal dubbio che la sua unica giustificazione morale all’olocausto di Hiroshima e Nagasaki – riuscire a far scampare la stessa sorte a tutto il resto dell’umanità – potesse essere reso vano dalla corsa agli armamenti che egli aveva contribuito ad avviare.
Il problema del rapporto dell’uomo con il progresso tecnologico viene così affrontato con conclusioni molto lontane dall’excelsior di fine Ottocento o il tecno-entusiasmo dei prometeisti contemporanei. Ciò che l’uomo ha scoperto non può essere ri-seppellito nelle sabbie dell’ignoranza. Possiamo vederne l’aspetto eroico, epico, estetico e caricarci virilmente sulle spalle il peso insopportabile dell’altro lato di quelle medaglie, come propone Miyazaki, contrapponendo ostinatamente l’imperativo morale “vivi!” all’incertezza del futuro e alla durezza del presente. Oppure, suggerisce Nolan, restare davanti all’angoscia di sapere che il primo fuoco rubato da Prometeo presto o tardi incendierà tutto il mondo. E nonostante ogni nostro sforzo, non potremo farci assolutamente nulla perché la reazione a catena non può essere più interrotta.
Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è redattore capo di "CulturaIdentità" ed è stato redattore capo di "Storia in Rete" dal 2006. Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellacancel cultureche sta distruggendo la nostra storia e Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).
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