di Francesco Maria Ricciardi

Una partitura coesa, con qualche nota stonata

Un pamphlet piuttosto ponderoso, ma alquanto scorrevole. “Il mondo al contrario” procede fra considerazioni su tematiche di comune interesse, argomentate con stile schietto, asciutto, lineare. Brevi aneddoti fanno da intermezzo in una partitura che, complessivamente, si mantiene emotivamente asettica, senza scadere nel triviale. Un pregio è la coerenza interna. I contenuti del capitolo successivo specificano e chiariscono quelli del precedente, in un diagramma ad albero, i cui rami pendono verso i capitoli centrali, quasi creandovi attorno una nicchia protettiva. Geometria compositiva che si fa veicolo visivo di significazione, in cui risulta davvero arduo estrapolare periodi ad nutum. Come insegna Richelieu, infatti, bastano sei righe scritte dal più onesto degli uomini per trovarvi qualcosa sufficiente a farlo impiccare.

Il tono, tendenzialmente, è disteso, discorsivo, neutrale. I capitoli sulla società multiculturale e sulle tematiche lgbt fanno storia a sé. Il primo, trionfo di solecismi ed anacoluti, registra uno stridente passaggio su accenti più duri, da comizio elettorale. Il secondo, a tratti contorto, mostra segni di contraddittorietà fra la parte iniziale (più criptica) e quella conclusiva (più piana), probabile frutto di stesure successive.

Tra Apocalypse now ed Amarcord, con tinte shakespeariane

La tesi dell’autore è che sia in atto un sistematico “assalto alla normalità”, il quale assume i contorni di una serrata operazione militare, permeando tutti i campi del vivere civile e condizionando le politiche governative, con un attacco mirato al cuore della società: la famiglia. L’offensiva è nascosta dietro il nobile obiettivo di tutela delle minoranze, in nome delle quali si arriva a sovvertire di fatto l’ordine delle priorità, dando vita ad una realtà macbethiana.

Le origini del problema sono ricondotte al fatidico anatema cartesiano del “Cogito ergo sum”, agli albori della modernità. Si ammonisce contro le esasperazioni del solipsismo, che degradano in forme aggressive e prevaricatrici di autismo relazionale. I comportamenti disforici si esternano in riferimento ai diversi temi sociali, che subiscono distorsioni tali da trasformarli in religioni estremiste, assolute, autoreferenziali. La responsabilità di simili derive si imputa, in primis, al socialismo reale, il quale intenderebbe servirsi di alter-ego del regime del terrore, per scardinare le basi della società occidentale. Contro l’avanzare invasivo di nuovi principi e valori, più fluidi ed “inclusivi”, si oppone il concetto di “normalità”, inteso come condizione di regolarità, consuetudine, non eccezionalità. Esso andrebbe utilizzato per risolvere, attraverso apprezzamenti basati sulla ragione, controverse dicotomie: catastrofismo ambientale/ambientalismo pragmatico; famiglia tradizionale/matrimonio lgbt; stati sovrani/società multiculturale.

La prospettiva è laica, immanente, antropocentrica, innestata su una visione di tipo evoluzionistico- adattivo. Si concepisce il mondo come un sistema fisico completamente avulso dalla lotta etica fra bene e male, in cui riescono a sopravvivere solo gli esseri viventi in grado di resistere ed adattarsi ai differenti habitat. L’uomo è la specie dominante par excellence, perché ha sviluppato le migliori capacità adattive, sia in relazione alle altre creature, sia all’interno della propria specifica comunità. Questa logica si riproduce, con crescenti gradi di intensità, in tutte le istituzioni, dal microcosmo della famiglia, al macrocosmo delle nazioni. I meccanismi di dominanza/prevalenza selezionano le soluzioni più efficaci nel rispondere ai bisogni umani (affettività, sicurezza, difesa della proprietà); in tal senso, la “normalità” assurge a condizione di conservazione. Da qui la necessità di preservare le scelte ed i modelli “vincenti”, a partire dalla “famiglia tradizionale”, il primo e più solido dei supporti sociali. A sostegno del ragionamento, si menzionano articoli, pubblicazioni, grafici, cui si aggiunge il condimento del vissuto personale e dell’esperienza professionale, maturata in contesti critici. Il confronto con realtà lontane dall’Occidente, dove è palpabile la piaga della povertà, spinge a guardare con insofferenza i capricci e le velleità di un certo progressismo nostrano à la page.

Sarebbe passatempo ozioso cimentarsi nell’interpretazione autentica di periodi isolati, svincolati dal loro contesto. Va comunque notato che lo scritto non è un violento e reazionario j’accuse contro personaggi o gruppi specifici. Il bersaglio dell’accorata reprimenda sono i comportamenti eversivi e delinquenziali, ispirati alle istanze più intransigenti, che creano disagio all’intera collettività.

Manifesto politico o memorandum pragmatico?

Il libro ha un merito innegabile: l’aver destato dal torpore della pausa estiva il dibattito politico, focalizzandolo su temi di comune interesse. La polarizzazione delle opinioni che ha ingenerato ed il rapido successo che sta riscontrando nelle vendite sono segno dell’interesse della popolazione per i contenuti trattati. È sempre cosa buona e giusta che la politica, sottratta agli spazi esoterici dei palazzi istituzionali, sia ricondotta alla sua matrice popolare e che i cittadini rivendichino il loro diritto a gestire la res publica. Quali che possano essere le reazioni alle parole del generale, le discussioni che producono sono arena, agone, vita democratica. Privarsene, per ottuso ostruzionismo pregiudiziale o per inconcludente ignavia, equivale ad insensato scarico di responsabilità e comporta insidiose deleghe in bianco di titolarità di sovranità. Altro grande merito, più conseguente alle reazioni dei vertici decisionali che all’opera in sé, è l’aver temprato lo scettro dei regnanti, sfrondandone gli allori e mostrando le intime contraddizioni di cui gronda. È difficile, dopo una lettura non preconcetta, capire quale possa essere stato il fallo di Vannacci, tutelato, fra l’altro, nella libera manifestazione del proprio pensiero, dal dettato costituzionale (art. 21 Cost.) e da apposite leggi speciali (art. 1472 del codice dell’ordinamento militare). Tanto più arduo se si considera che moltissime delle sue posizioni sono alla base dei programmi elettorali dei partiti dell’attuale maggioranza e non si discostano dall’idem sentire moderato. Se persino questo deve essere oggetto di pubblica abiura, cosa rimane davvero da conservare, se non uno strianesco “resto di niente”?

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L’atteggiamento con cui il lavoro avrebbe dovuto essere accolto è quello di un parere proveniente da una carica di onusta esperienza. Parere dal quale far gemmare una discussione più ampia, magari anche in contrasto con le conclusioni dello scritto, ma pur sempre con esse in dialettica tensione. Invocare, frettolosamente, la damnatio memoriae è reazione scomposta, che finisce col confermare gli assunti del militare. Si corre il rischio, per sedare il fastidio suscitato da alcune frasi equivocabili, di uccidere nella culla tante altre proposte ragionevoli (il sostegno alle persone anziane, un ripensamento dei servizi all’infanzia, un possibile reddito di genitorialità).

Veniamo alle debolezze. La grande assente, nel novero dei valori della Tradizione da preservare, è la Fede. Non si dedica uno specifico capitolo alla difesa della cristianità e del culto cattolico. Eppure, proprio questi ultimi sono oggetto degli attacchi più rabbiosi, sia da parte delle altre minoranze religiose presenti sul territorio nazionale, sia ad opera del mondo liberal, che di sovente li addita come un ingombrante intralcio nel cammino verso l’emancipazione. A destare dubbi è anche la metodologia di indagine. In certi passaggi, le affermazioni suonano apodittiche e tetragone. Infine, una pecca vistosa è la mancanza di definizioni perspicue ed una certa schizofrenia concettuale, che sfocia nella reticenza, favorita dall’imprecisione terminologica. La stella polare inseguita, quella del “Buonsenso”, è presentata con contorni fumosi, come sinonimo di “senso comune”, inteso quale generico sentire, opinione della maggioranza. Occorrerebbe maggiore precisione, per scongiurare derive semanticamente e culturalmente pericolose. Il buonsenso, come uso moderato, equilibrato della ragione, non coincide col senso comune, come ricorda Manzoni, a proposito della peste. Il nitore concettuale ed il rigore tassonomico sono indice di limpidezza di pensiero e servono a distinguerlo dalle fumisterie dei manifesti politici e delle ideologie. Il generale, che dimostra di conoscere e comprendere l’importanza di un linguaggio foriero di significati concreti, non può ignorarlo.

A non convincere pienamente è proprio l’idea alla base del libro: quella secondo cui concetti come “normalità”, “democrazia”, “giustizia” debbano essere spiegati in base ad un rapporto statistico di predominanza e prevalenza, nel quale la maggioranza decide e la minoranza, nel rispetto, si adegua. Non persuade la fatalità ineludibile di cui tale idea pare intrisa, quasi si trattasse di un assioma immodificabile, intangibile.

“Il mondo al contrario”, in definitiva, pare destinato a scontentare un po’ tutti: sia quelli che lo riterranno irricevibile a priori, sia coloro che lo acquisteranno nella fuggevole speme di poter incoronare un nuovo messia. Va senz’altro tributato l’onore delle armi, per aver difeso valori di patrimonio comune, in una società in cui sembra diventato necessario brandire spade, levare scudi per affermare che le foglie sono verdi. Tuttavia, non vanno sottaciute le approssimazioni, le fallacie logiche, le reticenze. Andrebbe consultato come un memorandum pragmatico, su cui provare ad innervare un confronto responsabile, maturo, scevro di pregiudizi ideologici, seriamente orientato alla soluzione dei problemi esaminati. E, probabilmente, in risposta all’ostracismo censorio che denuncia (e di cui, in parte, è vittima), andrebbe letto non tanto per incondizionata fiducia, bensì per mera petizione di principio, per il gusto della civile ribellione, pour la beautè du geste.

 

francesco maria ricciardi

Avvocato, lavora presso il Tribunale di Napoli.
Laureato in Giurisprudenza (Università di Pisa), è dottorando di ricerca in Diritto amministrativo (Università di Salerno). Ha un Master di II livello in Diritto della concorrenza e dell'innovazione (LUISS di Roma) e un Diploma di perfezionamento universitario in Contabilità, bilancio e finanza aziendale per giuristi (Università Parthenope di Napoli).