di Massimiliano Carta

È possibile definire come fuori ruolo un politico incapace di prendere decisioni impopolari ma necessarie, sacrificando il consenso elettorale per un fine più grande? Il sociologo Vilfredo Pareto, affrontando con piglio deciso l’argomento “élite”, affermava con sagacia che in una condizione di equilibrio socio-economico stabile, gli individui che facevano parte del gruppo dell’aristocrazia dirigente eletta apparivano agli occhi del restante della popolazione a lei soggetta come dotati di qualità tali da garantir loro l’esercizio e la conservazione del potere. Ma queste élite sono destinate ad una vita breve poiché tutte, prima o poi, vengono colpite da una decadenza più o meno rapida. Sopravvivrebbero soltanto con l’espulsione dai loro ranghi degli elementi meno efficienti e con la cooptazione di elementi nuovi e di qualità, possibilmente provenienti dal basso della piramide sociale, dalle classi subalterne. Vi deve perciò essere fra élite dominanti e classi soggette una continua circolazione soprattutto su base qualitativa: se questa circolazione non vi fosse o risulti troppo lenta, non sarebbe peregrina l’ipotesi di una rottura dell’equilibrio sociale che potrebbe sfociare, nel peggiore dei casi, in una rivoluzione.

Politica da battimani

Non è cosa improbabile, oggigiorno, udire commenti mordaci sul decadimento culturale di una buona fetta dell’attuale classe politica italiana. Spesso i critici al vetriolo ritengono d’uopo fare i dovuti paragoni con i leader della sepolta Prima Repubblica, nata dalle ceneri dell’ultimo conflitto, anche solo su questioni concernenti il livello di dialettica e qualità intellettive. Inutile dire che tale confronto conduce a risultati deplorevoli a sfavore dell’attuale dirigenza. Una crisi, quella dei partiti, deflagrata con l’avvento di Tangentopoli, al quale ha seguito per almeno un ventennio il “berlusconismo”, ovverosia una “emulsione di populismo antipolitico e liberalismo” secondo la definizione data dal politologo e storico Giovanni Orsina, per culminare in un infausto requiem in onore del ceto politico attuale nato da quelle stagioni storiche.

Fra i tanti fattori che hanno contribuito a tale decadimento, il posto d’onore va in modo particolar modo ai mass media (social network, tv), che inevitabilmente hanno apportato modifiche sostanziali nel metodo di selezione della classe dirigente e nel modus operandi dei gruppi o singoli politici. Si è passati dalla sezione di partito, con la presenza di scuole di formazione politica (es. scuola delle Frattocchie, in ambito di Comunismo italiano) e progressiva scalata verso i vertici del partito stesso e delle cariche pubbliche sulla falsariga del cursus honorum d’epoca romana, alle performance nei circhi mediatici d’info-intrattenimento, dove al contrario sono richieste presenza scenica, battuta caustica, viralitá, semplificazioni imbarazzanti, capacità di sollecitazione di bassi istinti emotivi. Si aggiunga a tutto ciò la disgregazione dei partiti di massa del ‘900, con tutto il loro corollario ideologico; la disintegrazione dei corpi intermedi; il ruolo sempre più ridotto della cultura e dell’istruzione scolastica (“con la cultura non si mangia”), cosa che per Gaetano Salvemini costituiva necessità organica per la formazione delle future classi dirigenti e precondizione necessaria per uno sviluppo di una sana democrazia; l’individualismo egoistico combinato con un consumismo estremo; assenza di una visione a lungo termine e/o di una sana volontà di potenza. Tutte concause che da una parte hanno contribuito a produrre una politica d’avanspettacolo social-televisivo con cicli di durata sempre più brevi, dall’altra una tecno-burocrazia sempre più invadente, che non di rado subentra di prepotenza nella gestione del potere per mantenere intatto lo status quo, dopo l’ennesimo crollo dei governi di maggioranza. Non dovrebbe sorprendere perciò se la qualità del dibattito pubblico intorno al calo delle nascite rasenti pressoché lo zero assoluto (anche se di recente, e con colpevole ritardo, qualche timido dialogo sull’argomento è stato avviato, seppur pregno di tutte quelle riserve di carattere ideologico).

Decrescita infelice, ma solo a ovest

Siamo troppi su questo pianeta, l’ambiente non può reggere troppo il nostro peso“, l’argomentazione più utilizzata in certi contesti per giustificare le più contraddittorie politiche malthusiane di riduzione della popolazione. Ragionamenti che, come vedremo qui di seguito, presentano imbarazzanti minimizzazioni nonché vere e proprie lacune logiche ed argomentative:

  • non sarà di certo il crollo della popolazione della Penisola a bloccare la crescita demografica globale, che secondo recenti studi arriverà a toccare quota di 10 miliardi di anime entro il 2050 (“sul lungo periodo siamo tutti morti” cit. John Maynard Keynes, economista che tratteremo in seguito). Aumento che toccherà soprattutto singole nazioni come Cina e India o agglomerati nazionali e multietnici dell’intero continente africano;
  • nel trattare l’argomento ambiente e sostenibilità più che il numero dei cittadini va considerato maggiormente il dato inerente il numero dei consumatori e la quantità di consumi pro-capite. Lo stile di vita di un europeo o di un americano è nettamente più inquinante e di maggiore impatto sull’ambiente in confronto a quello di un qualsiasi abitante dell’Africa subsahariana. Con miliardi di persone abitanti di Nazioni in via d’industrializzazione massiccia anche per volontà di raggiungere i livelli di consumo occidentali diviene evidente che il calo italiano non compenserà l’aumento dei consumi a livello globale, né tantomeno ridurrà l’impatto ambientale dell’essere umano sull’ecosistema mondo;
  • l’inevitabile aumento della popolazione anziana dello Stivale, senza un corrispettivo ricambio generazionale, produrrà uno spostamento non proprio esiguo della spesa pubblica verso il sistema pensionistico, togliendo risorse necessarie per lo sviluppo industriale e commerciale interno. Cosa che potrebbe produrre effetti distorsivi non di poco conto a causa della propensione al risparmio di talune fasce di popolazione a discapito dell’investimento produttivo, che porterebbe inevitabilmente ad un blocco della curva d’incremento del PIL. Non serve dire che la domanda di maggiori investimenti nella sanità statale schizzerebbe ai massimi livelli a causa dell’invecchiamento della popolazione, sottraendo fondi necessari per tutte quelle politiche per il lavoro giovanile;
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Immigrazione e destabilizzazione

Ovviamente non mancano le grida di dolore (possa perdonare il nostro Galantuomo reale…) di chi vorrebbe l’apertura delle frontiere ad ogni migrante in età da lavoro, con tutti i problemi di integrazione e sicurezza che un tale fenomeno si porta con sé. Problemi che possono condurre a consequenziali e naturali estremismi ideologici autoctoni o a vere e proprie lotte per la sopravvivenza fra allogeni immigrati di seconda o terza generazione, in pieno stile banlieue francesi. Tutte cose per le quali la convivenza fra culture differenti potrebbe essere inevitabilmente messa a dura prova (scontro fra civiltà?). Conflitto orizzontale socio-culturale che potrebbe inasprirsi maggiormente in casi di aumento delle disuguaglianze e blocco della crescita economica interna (con relativa diminuzione della competitività sullo scacchiere internazionale, vera e propria ossessione degli Stati moderni a trazione mercantilista), come nel caso dell’Italia. Le insidie non sono poche, da come è possibile evincere.

Dello stesso parere lo è anche Andrea Gaspardo, autore dell’articolo “Il collasso demografico dell’Italia”, apparso sulle colonne della testata DifesaOnline.it. Eccone un passo:

I fenomeni demografici sono infatti componenti fondamentali di quello che in economia si definisce “capitale umano”… A ben vedere, l’importanza che la demografia riveste in campo economico venne efficacemente descritta dall’economista inglese John Maynard Keynes in un discorso del 1937 alla Eugenics Society: “Una popolazione crescente ha un’importante influenza sulla domanda di capitale. Non solo la domanda di capitale aumenta, al netto del progresso tecnico e del miglioramento delle condizioni di vita, in approssimativa proporzione alla popolazione. Ma poiché le aspettative degli imprenditori si fondano più sulla situazione attuale che su quella futura, un’era di popolazione crescente tende a promuovere l’ottimismo, dato che la domanda tenderà a superare le aspettative, piuttosto che deluderle. Ma in un’era di popolazione declinante avviene invece il contrario. La domanda tende a deludere le aspettative e una situazione di eccesso d’offerta è difficile da correggere, sicché si può determinare un’atmosfera di pessimismo”… Il primo effetto del cambiamento da una popolazione crescente a una declinante può essere disastroso.

Visto il perdurare della situazione di incertezza e senza delle chiare prospettive per il futuro, è assai più probabile che i suddetti individui optino invece per accrescere il livello del risparmio personale con conseguenza di far precipitare l’economia nel cosiddetto “paradosso del risparmio” (cioè diminuzione del consumo da parte di famiglie ed individui con conseguente sottrazione di risorse all’economia in generale che, dopo una serie di passaggi intermedi, ha come effetto ultimo un ulteriore calo dei redditi) con il risultato finale che tale scenario finirebbe per acuire ulteriormente la spirale deflazionistica nella quale la nostra economia è già piombata da almeno 4 anni. Cose già dette e previste ampiamente in tempi non sospetti.

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Laureato in Media Digitali presso l'Università degli Studi di Roma Tre, è autore di vari scritti di natura storico-culturale per diverse riviste.