di Emanuel Pietrobon

Il sistema di accoglienza lampedusano è saturo. Un’intensa ondata di sbarchi ha messo duramente alla prova le capacità di smaltimento dei flussi dell’isola, che nei giorni di massima tensione ha registrato più migranti illegali che residenti, e ha contribuito a riaprire l’eterno dibattito sulla Convenzione di Dublino.

Alcuni esponenti dell’esecutivo, a partire dal ministro Matteo Salvini, hanno descritto la crisi in termini di «atto di guerra» e invocato l’adozione di misure draconiane per giungere a un taglio drastico dei flussi. Le dichiarazioni del ministro Salvini poggiano su un fondo di verità: la frequenza degli sbarchi indica che sia in atto una guerra ibrida per mezzo di quel potente strumento di destabilizzazione che sono le armi di migrazione di massa. La soluzione non proverrà né da Bruxelles né dal Maghreb, bensì da Roma.

Il problema dei confini liquidi

Nei primi nove mesi del 2023 sono sbarcate illegalmente in Italia più persone che nel corso dell’intero 2022: 127.207 contro 104.061. Non sono i numeri del periodo nero della crisi migratoria dello scorso decennio, quando nel 2015-16 approdarono irregolarmente sulle coste italiane più di 334 mila persone, ma a preoccupare è il loro inquadramento all’interno di una tendenza pregressa.

Gli arrivi sono aumentati, dal 2020 ad oggi, al ritmo di trentamila l’anno: 34.154 nel 2020, 67.034 nel 2021, 104.061 nel 2022. Ma il 2023 si chiuderà, probabilmente, con un incremento degli ingressi superiore ai trentamila.

Le ottime relazioni con l’Algeria e gli accordi con la Tunisia non sono serviti e non serviranno a ridurre significativamente gli sbarchi, fermandoli al momento delle partenze, perché il Maghreb è più vittima del fenomeno che suo originatore. Questo moto destabilizzatorio ha radici altrove, nel Sahel e dintorni equatoriali, e ha ben poco di genuino: è il preludio di quello che potrebbe accadere se la geostrategica cintura sahariana dovesse permanere sotto il controllo di attori ostili, come Mosca, Pechino e, in prospettiva, Ankara e Abu Dhabi, ovvero lo scoppio di un esodo eccezionale per dimensioni e per impatto sociale, politico ed economico sui teatri colpiti.

L’Italia ha sempre perso al tavolo delle migrazioni di massa, che sono state utilizzate (con successo) come strumento ricattatorio sin dai tempi di Mu’ammar Gheddafi, ma un recente cambio di paradigma – l’uscita del Sahel dalla sfera d’influenza europea – impone di seguire linee d’azione innovative in difesa di quella frontiera liquida e permeabile che è il Mediterraneo.

Combattere le armi di migrazione di massa

La soluzione ai problemi dell’Italia non proverrà né da Bruxelles, che sul tema migrazioni è divisa e ha poca sensibilità in materia di guerre ibride, né dal Maghreb, che negli anni recenti è diventata più area di transito che di origine dei flussi.

L’Unione Europea potrebbe venire in soccorso dell’Italia acconsentendo all’inaugurazione di una missione navale difensiva, sospendendo temporaneamente la Convenzione di Dublino e contribuendo alla stabilizzazione economica dei due ventri molli del Nordafrica, Libia e Tunisia, ma all’Italia spetta l’onere di portare avanti iniziative unilaterali, bilaterali e/o multilaterali di contrasto attivo dei flussi migratori pilotati.

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La comprensione è la chiave per il contrasto attivo. Comprendere equivale ad avviare studi approfonditi sul fenomeno delle migrazioni telecomandate, che figurano tra le armi ibride dall’efficacia più elevata (Greenhill, 2010), e a chiedere l’expertise di paesi potenzialmente utili, come l’Australia.

Le tempistiche di identificazione e rimpatrio, più che allungate – è in discussione l’aumento della permanenza nei CPR da dodici a diciotto mesi –, andrebbero sveltite fino ad assicurare un espletamento dell’espulsione di coloro che non soddisfano i requisiti d’asilo in non più di tre-sei mesi. Deburocratizzazione delle procedure, potenziamento del personale, revisione dell’applicazione esecutiva dei decreti di espulsione e creazione di unità transnazionali ad hoc per l’incrocio dati sono le vie da percorrere per realizzare questi obbiettivi. In funzione di deterrenza, invece, servirebbero pene più severe (e certe) per i trafficanti di esseri umani e operazioni continue, non sporadiche, di neutralizzazione delle menti dei flussi – la sconquassamento delle catene di comando, dai vertici alle basi, per minare le capacità logistico-organizzative delle reti di trafficanti.

L’Italia ha bisogno di accordi per l’accelerazione delle procedure di identificazione e rimpatrio con i principali paesi originatori dei flussi, di nuove strutture per il trattenimento e per l’espulsione – magari degli aeroporti ad hoc a Lampedusa e dintorni –, ma, in special modo, di politiche in grado di risolvere il problema alla radice. Perché i respingimenti, data la posizione scomoda dell’Italia nel Mediterraneo, sono un palliativo destinato a erodere i suoi effetti nel tempo.

Il Sahel è la ragione prima e principale del boom di sbarchi illegali dell’ultimo triennio. La frontiera più esterna dell’Unione Europea è quasi caduta del tutto, colpita da golpe, guerre civili e insorgenze a orologeria, ed è oggi indirettamente e direttamente controllata in parte significativa da Russia, Cina, Turchia e attori non-statuali maligni, da signori della guerra a organizzazioni terroristiche, che hanno un obbiettivo in comune: aprire i rubinetti dell’immigrazione illegale, le cui sorgenti si trovano tra Sahel ed Equatore, per mettere sotto pressione l’Europa.

Il Sahel è l’origine e la ragione di questa crisi in divenire, che potrebbe facilmente superare le dimensioni delle ondate dello scorso decennio per via di una concatenazione di fattori, in particolare cambiamento climatico, demografia, fallimenti statali, povertà endemica e terrorismo, contro la quale poco e nulla è stato fatto dalle potenze europee negli anni recenti e che richiederà anni, forse uno o due decenni, per essere sciolta. Il momento di agire, mandando avanti cooperanti allo sviluppo, investitori e peacekeeper, è adesso.

emanuel pietrobon

Analista geopolitico, consulente di politica estera e scrittore. Laureato in Area and global studies for international cooperation (Università di Torino), si è formato tra Italia, Polonia, Portogallo e Russia. Specializzato in guerra ibride, questioni latinoamericane e spazio post-sovietico.