TikTok è il social media del momento. Il pubblico attivo mensilmente, pari a 1,1 miliardi di persone, lo pone nelle prime posizioni della classifica delle principali piattaforme sociali globali, dopo Facebook, Instagram, YouTube e WeChat, ma la demografia del medesimo lo rende l’applicazione di riferimento delle nuove generazioni: Millennials e Zoomers.
Inizialmente noto per ospitare influencer, sia affermati che dilettanti, che producevano e distribuivano video neutri, per esempio incentrati su balli, ricette culinarie e sessioni di videogiochi, TikTok è progressivamente evoluto nello specchio dei nati dopo il 1990 e ha ospitato un numero crescente di contenuti a sfondo sociopolitico. Un’evoluzione che è stata accompagnata da feroci critiche, non soltanto in Occidente, e che ha portato l’applicazione ad assumere le sembianze di una super-operazione psicologica.
Un algoritmo unico, una guerra cognitiva senza precedenti
L’algoritmo unico nel suo genere, che permette a chiunque in prospettiva di poter ottenere un nutrito seguito popolare e di monetizzare grazie allo stesso, ha reso TikTok celebre tra i creatori di tendenze e i fabbricatori di opinioni della contemporaneità, i cosiddetti influencer, attirando l’attenzione di grandi firme, piccoli imprenditori, aspiranti ricchi e narcisisti alla disperata ricerca di attenzione.
L’instant video sharing, ossia la condivisione istantanea di contenuti, è la cifra distintiva di TikTok, che funziona secondo lo schema del registra, condividi, viralizza e (con un poco di fortuna) monetizza. Schema che fa di TikTok una sorta di ascensore sociale digitale e che lo rende anche, quando impiegato per scopi di guerra ibrida, un eccezionale diffusore di disinfodemie.
Le ragioni delle controversie che circondano l’applicazione sono state elencate e spiegate nel dossier sulle guerre cognitive e nella successiva analisi incentrata sui processi di inebetimento indotto che TikTok sarebbe in grado di produrre negli utenti. Ma un fenomeno non era stato approfondito: il ruolo-chiave giocato dagli influencer, cinesi e non, nella veicolazione di bufale e sfide autolesioniste e instupidenti – le famigerate challenge –, nella viralizzazione di teorie del complotto e nella promozione subliminale dell’agenda politica di Pechino.
La Cina ha dimostrato di aver compreso lo straordinario potenziale degli influencer, preti senza talare che ai loro fedeli – i cosiddetti follower – sono in grado di vendere prodotti, servizi e soprattutto idee. Ragion per cui gli stessi influencer che in Cina svolgono mansioni di pedagogia nazionale, utilizzando i loro canali social per promuovere valori patriottici, su TikTok perseguono obiettivi radicalmente differenti nei confronti del pubblico occidentale e non: confondere, convertire, instupidire, sessualizzare. Obiettivi che hanno spinto vari paesi a bandire l’applicazione dal loro mercato digitale, accusandola di minare la salute del tessuto sociale.
Le fabbriche del consenso made in China
TikTok, sicuramente dal 2019, ma forse sin dal suo lancio sul mercato globale, si avvale del fondamentale contributo quotidiano di migliaia di influencer che operano all’interno di edifici interamente adibiti alla registrazione e al confezionamento dei loro contenuti: le influencer farm, letteralmente fabbriche di influencer.
Le influencer farm sono realtà ultra-accessoriate, nelle quali i produttori di contenuti hanno a loro disposizione telecamere, luci, trucchi, televisori e tutto ciò di cui abbisognano, e di cui i follower ignorano l’esistenza: vedranno il proprio idolo registrare da quella che pensano sia la sua stanza, ignorando che sia un set.
Le influencer farm hanno ottimizzato notevolmente le tempistiche di realizzazione tanto dei prodotti ordinari quanto di quelli cognitivi, garantendo a TikTok un controllo più stretto degli influencer a libro-paga e una qualità maggiore dei loro contenuti. Il successo di queste fabbriche nelle cui catene di montaggio si assemblano idee, che vengono poi vendute ai consumatori cinesi e di tutto il mondo, è stato tale da averne legittimato l’apertura anche al di fuori della Cina continentale: dal Sudest asiatico all’Indonesia.
Quella delle neonate influencer farm non è soltanto un‘industria multi-miliardaria, che garantisce mensilmente a Pechino entrate fisse a dieci zeri – provenienti dall’affitto dagli influencer –, ma è anche uno dei segreti del successo delle operazioni psicologiche di TikTok, che, grazie a questo sistema tanto distopico quanto avveniristico, vengono sfornate su scala industriale.
Difendersi dagli influencer maligni
Riconoscere un influencer ordinario da un operaio di una influencer farm è possibile. Innanzitutto è da chiarire un elemento fondamentale: sebbene essenzialmente basate in Cina e in Estremo Oriente, queste distopiche fabbriche di idee impiegano influencer di ogni nazionalità, privilegiando coloro di provenienza occidentale per via della loro capacità di raggiungere, e soprattutto di convincere, fette di pubblico molto più ampie rispetto alle controparti asiatiche.
Gli influencer provenienti dai paesi occidentali vengono reclutati per promuovere contenuti specifici, essenziali al fine della provocazione di fenomeni di liquefazione sociale nelle realtà bombardate dalla loro incessante campagna cognitiva, e non è difficile riconoscerli: i loro video pubblicizzano e indottrinano a femminismo di quarta ondata, ideologia di genere, teoria critica della razza, ultraprogressismo, e quindi in generale a ogni forma di wokeismo, intervallando periodiche e curiose invasioni di campo nella politica internazionale in cui demonizzano gli Stati Uniti, veicolando la narrazione secondo la quale sarebbero sull’orlo di una guerra civile e in pieno collasso sociale, ed elogiano la Cina.
Appunto perché occidentali, dunque al di sopra di ogni sospetto, questi influencer maligni realizzano numeri da capogiro: i più capaci riescono a generare oltre cento milioni di visualizzazioni in breve tempo.
Non è soltanto dai contenuti che è possibile individuare gli agenti di influenza di Pechino sotto copertura. Il Daily Caller, per esempio, nell‘agosto 2023 ha scoperto la reale identità di un’influencer apparentemente ordinaria, sebbene bizzarramente concentrata sulla produzione di contenuti woke di condanna al matrimonio, alla mascolinità e alle relazioni uomo-donna, per mezzo di un’analisi dettagliata della location utilizzata per girare i video.
Consapevolezza situazionale, spirito critico e scetticismo attivo sono i tre elementi che possono permettere a chiunque, anche agli utenti comuni, di distinguere un contenuto divulgativo od opinionistico da un’operazione psicologica. Perché le guerre cognitive, come il Diavolo, si celano nei dettagli.
Analista geopolitico, consulente di politica estera e scrittore. Laureato in Area and global studies for international cooperation (Università di Torino), si è formato tra Italia, Polonia, Portogallo e Russia. Specializzato in guerra ibride, questioni latinoamericane e spazio post-sovietico.
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