di Daniele Scalea

Le dinamiche e i conflitti che da un secolo e più interessano la regione palestinese hanno molte peculiarità locali. Per varie vicissitudini storiche, due popoli sono giunti a fronteggiarsi accanitamente per 30mila km2 di terra. Da un lato gli ebrei, che vedono nella Palestina l’antica patria, la “terra promessa” biblica, che molti avevano abbandonato ma che era rimasta presidiata da un certo numero di loro (il haYishuv haYashan, “vecchio insediamento”). Dall’altra gli abitanti arabi o arabizzati, che proprio dal lungo scontro con gli ebrei hanno maturato un’identità particolare, adottando per sé il nome di “palestinesi”. Molti degli odi e del sangue che da generazioni scorrono in quelle terre derivano da questo scontro etno-nazionale per una comune patria, che appare troppo piccola per contenere due popoli così numerosi e diversi.

Questa opinione – di per sé non errata – ha a lungo nutrito la convinzione degli Europei che quanto accadesse tra Israele e palestinesi non li riguardasse – almeno, non da vicino. Gli attacchi militari, gli attentati terroristici, erano visti con distacco: qualcosa che riguardava “loro” (gli israeliani, gli ebrei), anche se avvenivano in casa nostra. Le bombe colpivano di solito le sinagoghe (Parigi 1980, Anversa e Vienna 1981, Bruxelles e Roma 1982, Copenaghen 1985, Cipro 1988) o le ambasciate israeliane (Bonn e L’Aia 1969, Londra 1994). I dirottamenti aerei erano effettuati contro voli dell’El Al. Alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 i terroristi di Settembre Nero presero di mira gli atleti israeliani.

Eppure non erano mancate le avvisaglie che l’Europa non fosse solo una spettatrice neutra, un terreno di scontro altrui. Pensiamo all’attentato al Cafè de Paris di Via Veneto, a Roma, che prese di mira indistintamente la sua clientela di turisti; o al dirottamento del volo Lufthansa 181, con cui i palestinesi volevano liberare i loro sodali della RAF, terroristi tedeschi di fede comunista; o a quando, nel 1973 e nel 1985, i terroristi palestinesi per due volte assaltarono l’aeroporto di Fiumicino. I governi italiani dell’epoca furono i più convinti assertori della tesi che, malgrado i frequenti spargimenti di sangue, bastasse tenersi fuori dalle beghe israelo-palestinesi per restare al sicuro. Ciò fu perseguito anche a costo di gravi umiliazioni: rapide scarcerazioni dei terroristi catturati, mancate pressioni per la loro estradizione quando rifugiati all’estero, l’agevolazione della fuga di figuri come Abu Abbas.

La falsa tranquillità in cui si cullava l’Europa è finita alcuni anni fa, quando ha finalmente compreso (eccetto i ciechi che si ostinano a negare l’ovvio) che gli attentati kamikaze non erano riservati solo a Israele. Nulla avevano a che fare con occupazioni, colonizzazioni o altri torti ai palestinesi i 130 morti degli attacchi multipli a Parigi nel 2015.  Né i 32 ammazzati a Bruxelles nel 2016. O gli 86 poveracci schiacciati da un camion mentre si godevano una passeggiata sul lungomare di Nizza. Solo per citare gli attentati più eclatanti, poiché l’ondata di attacchi è stata abbondante e non si è ancora fermata. Gli attentatori sono musulmani di varia origine, spesso nati in Europa, e quelli palestinesi sono pochi (ma ci sono: come Osama Krayem). Tuttavia, i metodi (attacchi suicidi), i bersagli (civili, senza distinzioni o pietà per donne e bambini), i moventi (l’odio islamista) sono gli stessi messi in campo dai terroristi palestinesi – almeno da quando è declinata la componente più “nazionalista” ed è emersa quella religiosa, di cui Hamas e il Jihad Islamico sono le incarnazioni.

Hamas è la branca palestinese dei Fratelli Musulmani. La sua bandiera non è nazionale, è religiosa: il vessillo verde con impressa la shahada, l’atto di fede islamico. Il suo obiettivo è l’instaurazione di uno Stato islamico (è il punto d’arrivo che accomuna tutti gli islamisti, da ISIS all’Ikhwan, dal Jihad Islamico a al-Qaida, che differiscono tra loro solo nella scelta della strategia e dei mezzi per arrivarci). Israele è giusto un ostacolo tra loro e la realizzazione di quest’obiettivo. Credere che l’Europa, l’Occidente, anche l’Italia non siano essi stessi degli ostacoli è segno di ingenuità.

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Ammettiamo pure che la visione dei sostenitori di un nuovo Califfato non sia espansionista. Ossia che, spazzato via Israele dal Dar al-Islam, siano disponibili a non inquadrare tutto il resto del mondo come Dar al-Harb, zona di guerra, terra di conquista. Ammesso e non concesso ciò, bisogna considerare la nuova realtà sul campo del 2023. Non siamo più nel 1950: i grandi flussi migratori degli ultimi decenni hanno cambiato il volto dell’Europa. Le nazioni europee, almeno quelle dell’Ovest del continente, sono parte del mondo islamico. La religione islamica non vi è maggioritaria, ma ormai vivono nei nostri Paesi cospicue minoranze musulmane. Le tendenze demografiche e la crisi della fede cristiana aprono le porte a scenari in cui, già nel medio periodo, l’islam divenga la religione maggioritaria – di maggioranza relativa, non assoluta, ma pur sempre maggioranza. In Francia, ad esempio, i cristiani (coloro che si identificano come tali) hanno ancora un margine di 4:1 sui musulmani, ma se guardassimo solo ai praticanti saremmo già vicini alla parità.

Non è necessario che i musulmani diventino il 50%+1 in un Paese, e nemmeno che diventino la religione di maggioranza relativa, perché gli islamisti possano considerare quella terra come parte dell’islam, dell’area di mondo da sottomettere alla legge coranica. In ciò non li si può nemmeno tacciare di irrazionalità: perché mai dovrebbero essere reticenti di fronte a grandi Stati che si vanno de-cristianizzando e in cui il numero di musulmani cresce rapidamente?

Solo degli sciocchi potevano pensare che consentire l’immigrazione di massa, quella numericamente più grande che la storia ricordi, sarebbe stato indolore e non avrebbe cambiato l’Europa. L’importazione di milioni di musulmani ha significato portare in Europa anche le loro pratiche, le loro ideologie, le loro idiosincrasie. Forti del loro numero, i musulmani europei possono cercare di trascinare l’Europa nei loro conflitti – oppure, di portare il conflitto direttamente contro l’Europa.

Leggere la guerra tra Israele e Hamas come un mero episodio locale, che non ci riguarda e chiama in causa, è anacronistico. La storia ha già insegnato che ciò che capita in Israele può poi ripetersi da noi. Serve solo che qualcuno decida di concentrarsi su priorità diverse. Non è nemmeno più una questione di “nemico lontano” e “nemico vicino”, il classico dilemma degli estremisti islamici su chi combattere prima (se i loro governi o se quelli occidentali). Per molti islamisti, che oggi vivono in Italia, Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna, noi siamo già il nemico vicino, quello più prossimo da combattere.

La scelta di campo, a questo punto, per gli europei non è più questione di ragione o emotività, senso di colpa o pietà. È, più brutalmente, questione di istinto di sopravvivenza.

Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.