Di fronte a casi di cronaca come i più recenti assistiamo, una volta di più (e di troppo) al consueto strascico di polemiche politiche, sociologiche e filosofiche che ormai avviluppano qualsiasi fatto di cronaca, dal più macroscopico (guerre, crisi economiche, pandemie ecc.) al più locale e particolare. Il recente caso di omicidio passionale che ha visto come vittima un’innocente ventiduenne per mano dell’ex fidanzato non ha fatto, purtroppo, eccezione. Quasi subito sono scomparsi dai radar i due veri protagonisti della vicenda, la vittima innocente e l’efferato assassino, mentre sono saliti alla ribalta o, per meglio dire, sono entrati nell’aula di tribunale, altri attori, questa volta collettivi. Sul banco degli imputati non c’è più l’assassino ma l’intero sesso maschile e, più ampiamente, l’intera società (donne comprese), definita “patriarcale”. Al banco del pubblico ministero siede, nel ruolo di accusatore, il progressismo, con la sua pletora di studenti [i social justice warrior NdR], influencer, politici, accademici. Com’è possibile questa translatio e soprattutto perché avviene? Vale la pena soffermarsi su un’analisi che, pur per sommi capi, vuole cercare di dipanare una matassa all’apparenza tanto illogica quanto insolubile.
Da uno a “tanti”
Da che mondo è mondo, il progressismo ha un problema con i concetti di individuo e responsabilità. Essendo genealogicamente il prodotto diretto della scomparsa del cosiddetto “orizzonte di senso” fornito dalla religione prima della rivoluzione scientifica, il progressismo è portato, quasi forzatamente, a negare l’esistenza del libero arbitrio. Nella visione meccanicistica del cosmo, e dunque anche dell’uomo, di derivazione illuminista e che, più tardi, si estenderà anche al marxismo e alle sue filiazioni, l’individualità della coscienza umana si fonde in un più generale reticolo di “rapporti di forza” ove la sua autonomia non solo viene recisamente negata ma perde addirittura status ontologico.
Meccanica egualitaria
Nella visione progressista, come sappiamo, ogni divisione tra gli uomini si presenta come artificiale: ogni differenza tra umani (sessi, classi, nazionalità ecc.) si presenta quindi come mero costrutto sociale determinato da precisi assetti preesistenti, ma questi costrutti sociali non costituiscono “la realtà”; essi ne sarebbero invece una sorta di distorsione, di prodotto di scarto da correggere intervenendo sulle circostanze e i contesti che li hanno generati. È la base dell’egualitarismo. Naturalmente una simile concezione dell’esistenza implica profonde conseguenze sociali e filosofiche. Il concetto di libero arbitrio è probabilmente una delle prime vittime. Concetto di eminente derivazione cristiana, il libero arbitrio non può, per ovvi motivi, sposarsi con una visione meccanicistica dell’universo e della politica.
Colpevoli o non colpevoli? Entrambi
In Marx l’ordinamento sovrastrutturale della società, ovvero tutto il suo patrimonio culturale, religioso, familiare, è il prodotto di risulta dell’assetto strutturale dell’economia e della divisione del lavoro, somma delle forze produttive e dei rapporti di produzione che intercorrono tra di esse. Nella visione marxista che, pur non esaurendo le teorie progressiste in merito alla responsabilità individuale ne riassume le dinamiche principali, non esiste quindi comportamento, meritevole o deviante che sia, ad essere figlio di un deliberato atto di volontà dell’individuo che lo mette in pratica. Il “male” quindi non si presenta come una libera scelta di chi lo commette, ma come il semplice prodotto “tossico” di una società abnorme che si regge su rapporti sociali ingiusti. Il concetto di libero arbitrio, nella filosofia di Marx e dei marxisti successivi, viene salvato, ma è traslato dall’ambito individuale a quello super-individuale della classe prima, e dell’intera umanità poi. Se le cose stanno così è allora evidente la ragione della speciale indulgenza di cui gran parte dei fenomeni criminali sembrano godere quando vengono posti di fronte al progressista. Raramente l’individuo, in sé e per sé, è giudicato il reale responsabile delle sue azioni. La responsabilità di queste viene invece scaricata sul contesto sociale, ovvero su quel reticolo di presunti sfruttamenti e alienazioni che, deviando l’uomo da una supposta bontà originaria (Rousseau) ne avrebbe causato il comportamento criminale. Il criminale, in buona sostanza, non è davvero colpevole. In questa prospettiva colpevole è nessuno e, al contempo, siamo tutti.
La ridefinizione della struttura
Si tratta in buona evidenza di un grosso problema filosofico, che anziché confinare il peso dell’atto deviante sul singolo responsabile che lo ha compiuto ne diluisce, e al contempo ne estende, l’impatto sulla collettività, in una sorta di dicotomica e simultanea ascesa di irresponsabilità e senso di colpa, entrambi declinati in forma collettiva. In questo climax, solo apparentemente contraddittorio, sentiamo già, fortissimo, il profumo della contemporaneità. Come sappiamo, tuttavia, la storia ha voltato le spalle al marxismo, perlomeno a quello “ortodosso”, relegandone le teorie al grande archivio delle utopie tanto irrealizzabili quanto estremamente costose in termini di sangue versato. Se però ciò può essere vero per quanto riguarda il marxismo come teoria politica ed economica così come la pensò Karl Marx nella fase matura della sua esistenza, lo stesso però non può dirsi riguardo alla praxis marxista, che, come abbiamo visto, contiene al suo interno, già riassunte, tutte le caratteristiche del progressismo inteso in senso genealogicamente più ampio. In particolare, la prospettiva meccanicistica di un assetto sovrastrutturale ingiusto, figlio di una base strutturale altrettanto ingiusta, è sopravvissuta indenne alle intemperie che hanno frantumato il muro di Berlino.
La grande mutazione
Sconfitta sul campo di battaglia dell’economia, la Weltanschauung marxista ha solo cambiato appostamento prospettico. Come già subodorato dal cosiddetto “marxismo occidentale” della Scuola di Francoforte e dai soltanto apparentemente loro avversari postmoderni, il campo di battaglia più promettente si trovava altrove. L’ascesa della psicanalisi e della filosofia del linguaggio aveva infatti mostrato ai filosofi ed ai sociologi progressisti un campo decisamente più agevole nel quale dare battaglia alle cosiddette ingiustizie del loro tempo. Se nel 1989 l’economia sembrava dare ragione in tutto e per tutto ai liberali e ai conservatori, lo stesso non si poteva dire dei fumosi e astratti campi della psicologia, della linguistica e della semiotica. Il liberalismo economicista trionfante, poi, appariva (e appare) poco interessato a questi campi di studio, dimostrandosi disposto a concedere ai progressisti un ambito, per esso, di nessun interesse.
Dalla fabbrica alla camera da letto
Abbandonato quindi il campo dell’economia, ma non il piano generale di rivoluzione sovrastrutturale da attuarsi intervenendo sulla base strutturale della società occorreva quindi ridefinire cosa questa base strutturale fosse. Esiliati nel piano dell’astratto intellettualismo dal liberismo trionfante, i “marxisti occidentali” sostituirono all’idea della vecchia base strutturale, fatta di rapporti di produzione, operai e fabbriche, quella di una nuova base strutturale, fatta di rapporti tra sessi (psicanalisi) e di giochi linguistici (filosofia del linguaggio). Per ottenere una società più giusta, in poche parole, non bisognava più intervenire sulle dinamiche di sfruttamento economico, ma su quelle sessuali e linguistiche, prospettiva che si dimostrava di assoluta fertilità e che al contempo non indispettiva l’assetto neoliberale ma che, anzi, tendeva, in molti punti, a rinforzarne le dinamiche e la portata ideologica, di per sé abbastanza anemica. La lotta di classe dunque non è scomparsa, ma è solo mutata camaleonticamente nella forma di lotta tra sessi (o “generi”) e di lotta per il linguaggio inclusivo. Ciò non significa, beninteso, che le forze oggi operanti nella scia del cosiddetto “wokeismo” siano costituite da machiavellici marxisti sotto mentite spoglie, quanto piuttosto evidenzia l’esistenza di una prassi, di un modus operandi, che agisce al servizio di una sorta di ur-progressismo, antecedente tanto al marxismo quanto allo stesso illuminismo, che sarebbe di grande interesse approfondire e studiare.
Da giudici a ingegneri
È soltanto in questa prospettiva che, in merito a casi di cronaca come quello riportato all’inizio, prende senso la colpevolizzazione collettiva di interi gruppi sociali e, in fin dei conti, dell’intera umanità. Il concetto di intersezionalità, sorta di ridefinizione gerarchica della società imperniata non più sul valore/merito ma sul dolore percepito, cerca a sua volta di dare legittimità e agibilità alla traduzione politica di questa gigantesca macchina del complesso di colpa e della cattiva coscienza: il diritto si diversifica, e da strumento di controllo volto a contrastare l’abuso della libertà dei singoli si trasforma in strumento ingegneristico volto alla trasformazione della società in qualcosa di diverso.
In difesa della complessità
Ancora una volta, la difesa della naturale convivenza tra le persone passa per la difesa della complessità realistica dell’esistente, definizione che riassume tutta la molteplicità del vivere e dell’agire umano (e non solo) irriducibile a qualsiasi astratto modello teorico che, come tutti i modelli utopistici non può affermarsi, ma solo spargere attorno a sé sopraffazione e violenza. Per anni il mondo conservatore è rimasto frastornato di fronte all’impasse per cui la scelta era esclusivamente tra responsabilità totale dell’individuo (monadismo apolide neoliberale) e irresponsabilità totale (collettivismo e totalitarismo “identitario” o “di classe” nelle sue più varie forme). La riscoperta di un modello sì meno intuitivo ma di certo più naturale, di concezione della libertà e dell’individuo, che è sì integrato in un collettivo ma che non vi si identifica totalmente, rimane ancora la via per un giusto compromesso tra identità, libertà e giustizia. A ben vedere sarebbe anche, probabilmente, la più greco-romana ed europea delle risposte.
Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.
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