di Sheila Soprani

Per un problema tecnico l’articolo era stato originariamente pubblicato monco di una parte cospicua del testo. Ora è stata ripristinata la versione integrale (NdR).

Dal primo agosto scorso anche nel nostro Paese è in vigore la Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione della violenza contro le donne e contro gli abusi domestici. ratificata anche dall’Italia un anno fa. Adesso abbiamo a disposizione anche uno strumento internazionale, giuridicamente vincolante per gli Stati, che affronta il fenomeno della violenza, nelle sue molteplici forme, su donne e bambine in quanto appartenenti al sesso femminile.

La Convenzione è chiara sulle strategie da adottare: si riassumono nelle “3 P”: Prevenzione, Protezione, Punizione, per raggiungere un unico grande obbiettivo, eliminare ogni forma di violenza e sopraffazione nelle relazioni fra i sessi. Con la Convenzione di Istanbul lo Stato ha l’occasione di far funzionare tutto ciò che già esiste: (servizi sociali efficienti, centri antiviolenza adeguatamente supportati, ripristino della fiducia nella giustizia di donne e di colmare i vuoti che ancora ci sono, facendosi carico di quelle 3P che contribuirebbero a non lasciare sole donne, minori, famiglie, volontarie, operatori e operatrici.

La partenza deve essere il ripristino dei valori educativi che si sono persi con il dilagare dei miti social; tutti devono essere belli e pieni di successo, individui che non devono mai soccombere. Poco c’entra la cultura patriarcale, se si pensa che molti passi sono stati fatti sotto il profilo della emancipazione, è veramente, un assurdo, un paradosso credere che i danni si manifestino ora più di prima, quando davvero le donne erano relegate ad un ruolo marginale della società.

È indispensabile, invece, recuperare quella forza dell’educazione familiare dei nostri nonni, capaci di trasmettere l’importanza del sacrificio, dell’impegno per un risultato; niente 6 politico per non far demoralizzare i discenti! Ogni cosa deve essere sudata e raggiunta con caparbietà e con la consapevolezza che se non riesce, pazienza, non se ne deve fare un dramma! Non devono esistere genitori che sparano ad un professore, ma genitori che, senza essere distratti  loro stessi dai social, ci camminino al fianco per accettare, loro con noi, anche le sconfitte.

Genitori che sappiano dare amorevoli carezze, ma che sappiano impartire i “no che fanno crescere”, quei no che soffochino quella parte narcisista di noi, che, ora più che mai, è enfatizzata dalla pubblicità, dai social, dai media, dalla musica trap e che non deve conquistare totalmente il nostro io. Un sano narcisismo deve limitarsi all’amore di sé, alla preservazione di sé come individuo, in modo da mantenere la dignità che purtroppo molte donne hanno perso, o non hanno mai avuto. Il ruolo più importante è quello delle donne che sono madri e che, nell’educare i figli, non mettano differenze loro stesse, non siano loro a dispensare i maschi dai doveri familiari, anche di servizio e accudimento, solo perché si è appartenenti al sesso maschile.

Questi gesti di apparente amore innocuo, implicitamente trasmettono un valore di superiorità dei figli maschi che, se crescono in un tessuto scevro di valori, diventano potenzialmente pericolosi portatori di violenza. Alle figlie femmine si deve trasmettere che mai si deve essere inerti, mai si deve rinunciare ad essere donne, sempre difendere la propria dignità, non consentendo mai nessun sopruso, neppure occasionale, provenga da chi che sia, per il “solo fastidio di doversi attivare”. È tramite l’alleanza delle due figure genitoriali, madre e padre, che si raggiunge questo obiettivo.

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Un ruolo di consolidamento può averlo la scuola ma, si badi, solo di consolidamento perché delegare questo dovere educativo ad altri, significa deresponsabilizzarci e dunque contravvenire al ruolo naturale proprio della famiglia. Nella scuola dovrebbero essere individuati percorsi che consolidino l’insegnamento familiare di rispetto di sé, degli altri e delle regole. Prevedere un dovere formativo, attraverso la frequenza obbligatoria di uno sport a livello agonistico, permetterebbe di concretizzare tale insegnamento.

Nello sport, qualsiasi esso sia, si impara la determinazione, l’impegno, il sacrificio, si rafforza l’autostima, senza sconfinare nel narcisismo, perché di pari passo, si apprende il dovere di rispettare le regole e dunque di rispettare l’avversario, si impara a non cedere all’istinto egocentrista, sapendo tendere la mano all’avversario, infine, ad accettare che lui vinca la competizione al posto nostro. senza sentici, per questo, inetti. Far frequentare uno sport agonistico fin dall’età fanciulla, ci permette di avere persone equilibrate: “mens sana in corpore sano”, persone che poco stanno sui social ma si misurano con la vita vera.

Possiamo legiferare con atti unanimi, ma restano norme in bianco se non corredate da un corretto sistema educativo. Un passo doveroso sarebbe quello di sostanziare la convenzione di Istanbul, in azioni concrete e utili attraverso il piano nazionale antiviolenza. Lo si sa, mancano fondi e quelli previsti non sono mai abbastanza, ma, anche finanziando, è indispensabile un coordinamento interministeriale che consenta di trattare il caso con un approccio  multifunzionale. È indispensabile una piattaforma nazionale univoca per circolare le informazioni tra organi di pubblica sicurezza, operatori sanitari e sociali, non si deve restare ostaggio delle procedure e dei tempi, come invece ci testimonia la realtà fattuale.

Dal punto di vista processuale, per esempio, contrarre il tempo delle indagini preliminari a 30 giorni, non aiuta le vittime perché potrebbero falciarsi argomenti di prova, utili nel processo. Necessario, invece, è ridurre i tempi di stasi, tra un’udienza e l’altra, dopo, il rinvio a giudizio, quando la vittima si trova di fronte a tempi pachidermici che non vanno di pari passo con la vita, né con le misure cautelari, che non possono essere eterne, considerata la garanzia costituzionale del diritto di difesa dell’imputato, e della presunzione di innocenza.

D’altro canto lasciare “scadere la misura cautelare” come il decreto di non avvicinamento o il braccialetto elettronico, prima della fine del processo, espone la vittima alle reazioni punitive del suo carnefice per aver osato difendersi, e non è sufficiente far poi decadere l’imputato dai benefici e applicare le aggravanti, quando la vendetta è consumata, diventa irreversibile per la donna che muore, ma anche per quella che si salva, la quale continua a vivere nell’ incubo, sicura di non essere protetta abbastanza.

Le azioni concrete non risiedono nella clamorosa strumentalizzazione dei fatti per addossare la colpa semplicisticamente, solo ad un sistema; queste condotte mediatiche sono ignobilmente un atto di violenza contro tutte le vittime!

sheila soprani
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Avvocato specializzata in legislazione e diritto parlamentare, autrice di dossier per il Servizio Studi della Camera dei Deputati, è laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Pisa e l'Università di Cordoba (Spagna). Master in Scienze della legislazione e corsi di perfezionamento in Diritto comunitario, Mediazione civile, Mediazione civile in materia bancaria e finanziaria. Membro del Dipartimento Giustizia e  dell’Osservatorio della Lega Salvini Premier in Toscana.